Va molto di moda, negli ultimi anni, il termine meritocrazia,
in riferimento alle politiche in materia d’istruzione pubblica. È arrivato ai
tavolini dei bar sotto lo scorso governo Berlusconi, retto da un partito che,
nella scelta del proprio organico, l’ha applicato nel modo noto. (Sarcasmo che
non occorre sottolineare). L’ex-ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini,
l’ha sbandierato, insieme alle uscite altezzose sui “corsi inutili”. Lo
stendardo precotto è stato riscaldato dal ministro attuale, Francesco Profumo. I due figuri hanno in comune una cosa: il collegamento fra “meritocrazia” e “braccino corto” nel finanziare la
pubblica istruzione.
Ora, vale
la pena di ridare un’occhiata approfondita a questo benedetto concetto. Così lo
definisce il vocabolario on-line Treccani.it:
“Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e spec. le cariche pubbliche, dovrebbero
essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere
in maggior misura intelligenza e
capacità naturali, oltreché di impegnarsi
nello studio e nel lavoro; il termine, coniato negli Stati Uniti, è stato
introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di
valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi
non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel
mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di
altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un
reddito dignitoso. Altri hanno invece
usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione
meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni
dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell’assegnazione
dei posti di responsabilità” (grassetto nostro). Ora, come sappiamo, il PdL
ha egregiamente rispettato questa concezione: un suo membro nel consiglio
regionale della Lombardia (per proporre un solo esempio) ha grandi doti di modella part-time ed è una meticolosa lettrice di rotocalchi. Qualcun altro si accredita per una pregressa carriera di soubrette, naturalmente propedeutica alle mansioni ministeriali. Il PdL è altresì
alieno dal clientelismo: infatti, il candidato primo ministro è praticamente
invisibile in campagna elettorale, a favore del fondatore del partito (propostosi
come ministro dell’Economia).
Lasciando
codeste amenità, è chiaro che la “meritocrazia” intesa con connotazione
positiva dovrebbe andare di pari passo con l’investimento nella pubblica istruzione. Ciò per far sì che le
barriere di censo ed estrazione cultural-familiare siano davvero superabili per
i dotati di “intelligenza e capacità naturali”. Senza agevolazioni fiscali,
mense, alloggi, borse di studio, biblioteche e accessi a Internet, le spese
connesse all’istruzione graverebbero unicamente sulle famiglie o sugli studenti
lavoratori, impedendo detto superamento. Nulla a che vedere con la ricerca del “dove
si può tagliare” tipica tanto della politica pidiellina, quanto del governo
tecnico. La cittadinanza italiana è legittimata a sentirsi presa in giro: sia
per l’uso in malafede del lessico politico, sia perché si vuol misurare col
contagocce il sostegno agli studi, quando, per il comfort delle “alte sfere”,
non ci si fanno tanti problemi. Senza contare le tragicomiche vicende di peculato
che la cronaca, periodicamente, riporta. Cascano bene, per abbagliare le
allodole, certi rispettabilissimi concetti importati dagli Stati Uniti. Insomma:
Tu vuo’ fa’ l' americano! […]ma si nato
in Italy! Siente a mme, non ce sta' niente a ffa…
La meritocrazia è quel qualcosa di cui l'Italiano si ricorda quando deve accusare il suo avversario (di non averla).
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