Per
incontrare i gusti televisivi di tutta la famiglia, almeno a casa mia, occorre
beccare qualcosa come Racconti incantati (regia
di Adam Shankman, 2008). Il protagonista è l’erede spodestato d’un albergatore.
Relegato al ruolo di tuttofare, sogna il riscatto e traveste le proprie
aspirazioni nelle fiabe che improvvisa per i nipotini. I due piccoli ossi duri
hanno sempre il suggerimento pronto per arricchire la trama. E il “Cenerentolo”
si accorge che le idee dei bimbi si realizzano nella sua vita… Nel complesso,
un’americanata in stile “film di Natale”, “credete-sempre-nel-lieto-fine” e
sviolinate sul tema. Che riescono, però, a incorporare grancasse da kolossal
d’azione: salvataggi all’ultimo minuto; corse folli in motociclette che
sembrano, più che altro, aerei; improbabili colpi di destrezza… I film
americani mi fanno sempre sentire ancor più italiana di prima.
Però, Racconti incantati merita pure due righe. Perché, sebbene in modo
pagliaccesco, ha colto due proprietà inalienabili della parola: quella creativa e quella associativa. La parola non “rappresenta”. Nemmeno “insegna” (a
dispetto della sorella del protagonista, che è preside dentro, prima ancor che
fuori). È una generatrice di legami,
come avveniva attorno al fuoco, in illo
tempore. È una terra di nessuno,
dove si può costruire a piacere (o quasi… non ci picchiamo di definire, qui, i
“confini di Babele”). Contrariamente a ciò che fa il Capitale (dopo K. Marx, se
ne può parlar come d’una persona), che deve distruggere, per poter edificare.
Come intende fare il Paperone dell’albergo, che ha richiesto l’abbattimento
d’una scuola elementare, per far spazio a un nuovo resort a cinque stelle. Dopo le recenti politiche in
materia d’istruzione, sarebbe troppo facile far satira… Perciò, la risparmiamo.
La realizzazione delle fiabe mette in scena anche il processo mentale della metafora, che, in questo periodo, mi sta particolarmente a cuore, per via d'un paper sulle teorie di Paul Grice (differenza tra il "significato letterale" e il "significato inteso"...).
Ma, in questa sede, ci basta vedere che il “Cenerentolo”
trionfa grazie a bacchette magiche spesso sottovalutate: la parola e la fantasia. Che altro non sono, se non rami dell’intelligenza. Il fine è ancor più lieto, in quanto il “successo”
del protagonista non consiste nel prendere lo scettro dell’impero a cinque
stelle (attraente, ma superficiale). Consiste nel salvare i suoi rapporti
umani, l’istruzione dei nipotini e il suo vero sogno nel cassetto: fare del
proprio lavoro qualcosa che lo tenga a contatto con la gente, che fornisca un
benessere cordiale e pieno di piccole, indovinate attenzioni. Buono è anche il
fatto che il Leccapiedi e la Spocchiosa siano rimessi negli unici posti adeguati
ai loro meriti…
Considerando che questo film è stato
partorito nel Paese dei Tycoon, potremmo leggerlo come un discreto S.O.S.:
“Vanno bene il progresso, lo sviluppo e il resto-dell’-elenco… Ma ci sono anche
le persone, cavolo!” Quando l’affanno del business brucia tutto il resto, il
gioco non vale più la candela. In questo senso, una cosa “puerile” come la
fantasia può diventare intrinsecamente sovversiva. Non foss’altro perché
svicola le leggi del denaro. E, di sovversione in sovversione… diventa possibile
che una fiaba si avveri.
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