Sto
leggendo le Leggi di Platone: IX,
860d-864c. Il volume è quello giallo, gommoso e mastodontico di Tutte le opere del filosofo, che la
Newton Compton ha pubblicato, nel 2009, per la collana “I Mammut”. Una massa
mostruosa di testi conservati, rispetto ai pochi “fiori rosa” di Saffo, o ai
barlumi di Parmenide ed Eraclito. Perfino del famoso Socrate, maestro di Platone,
nulla è rimasto (ah, già… pare che non fosse proprio innamorato della
scrittura. Sconfitto in partenza, in questo senso). Il filosofo che “sapeva di
non sapere”, per noi, è, perlopiù, quello dipinto dal suo più illustre allievo:
anche in barba ad altri (Senofonte, fattene una ragione…). E, in base a questo
spartiacque made in Plato, si
dividono i pensatori della grecità: “presocratici” e “dopo Socrate”, con il
rigagnolo del cinismo, la fontana di Aristotele, il fiume ramificato della
Stoà… Neanche fosse Gesù Cristo…
Basta questo, per capire cos’abbia
significato Platone –cosa continui a significare. In un certo senso, lui (non
Socrate) è davvero divenuto un Gesù Cristo, per gli stessi cristiani. S. Paolo
si è buscato la sua faccia, nei ritratti. L’anima, anche solo nella teologia
popolare, è quale viene descritta nel Fedone.
I pii cattolici che spirano credendo in un aldilà migliore non sono
dissimili dal Socrate che beve la cicuta chiedendo di ringraziare Asclepio per
la sua “guarigione”. Non parliamo della morale sessuale… Giusto nelle Leggi, libro VIII: “Non appena giunsi
nel mio discorso alla questione riguardante l’educazione, vidi ragazzi e
ragazze che si facevano reciprocamente manifestazioni d’affetto: e fui
naturalmente colto dal timore […] In che modo allora, in questo stato, si potrà
stare lontani da quelle passioni che gettano la maggior parte delle persone in
condizioni di estrema gravità, passioni da cui la ragione ordina di astenersi,
se solo potesse diventare legge? […] come guardarsi dagli amori dei bambini,
maschi e femmine, e da quelli delle donne che assumono il ruolo di uomini, o da
quelli degli uomini che assumono il ruolo di donne, donde scaturisce tutta una
serie di mali sia per gli uomini in privato, sia per gli stati interi? […] Se qualcuno
allora, conformandosi alla natura, ristabilisse la legge in vigore prima di
Laio, affermando che è giusto che i maschi non si uniscano coi maschi o con i
ragazzi, come se fossero donne, nell’unione sessuale, e chiamasse a testimone
la naturale inclinazione degli animali, dimostrando a tal proposito che nessun
maschio ha relazioni con un altro maschio perché questo è contro natura,
ricorrerebbe forse a un’argomentazione persuasiva, ma in totale disaccordo con
i vostri stati” (835d-836c; trad. dal greco di Enrico Pegone). È un ateniese (come Platone) che
parla a un cretese. Siamo a metà del IV sec. a. C. Eppure, questo genere di
ragionamento avrà fatto fischiare le orecchie a molti, vivissimi e
modernissimi. Non foss’altro per averlo sentito esporre dalla nonna o da un
ospite di talk-show –certo, non con l’eleganza platonica. Credo bene che
Baudelaire, parlando alle donzelle di Lesbo,
si preoccupasse dell’ “occhio austero del vecchio Platone”… Ne ha avuto i
motivi che sappiamo.
Ma, oggi, è sul libro IX che mi sono
soffermata. Quello in cui l’ateniese illustra come nessuno faccia il “male”
volontariamente. Il “male” sarebbe tutto ciò che viene provocato dall’ira,
dalla passione, dalla ricerca del piacere… dalla parte extrarazionale della
psiche. Extra rationem nulla salus. Perché
la “ragione” è la parte di noi che si adatta alle regole. Come ben si sa,
Platonuccio nostro non perdona troppo neppure alla poesia e alla musica. A meno
che… a meno che non facciano parte d’un programma educativo volto a sfornare
cittadini modello. Il “meglio” è ciò che uno Stato o un accordo fra privati
cittadini hanno stabilito per “rimettere in ordine” un uomo. E questo
“rimettere in ordine” è una “cura” per l’individuo, che –poverino!- ha bisogno
che altri gli spieghino quale sia il suo bene. La persona appassionata, ricca
d’affetti, fantasia ed estro artistico, è “malata” quanto un avido o un
violento, se non si mette a servizio dello Stato. Anche se prova, più d’altri,
il gusto della vita: dell’unica vita.
Capisco bene, Platonuccio caro, perché
la tua opera ci sia pervenuta così generosamente… Deve aver fatto comodo
a molti: abati, sovrani, statisti, chiunque avesse da comandare, insomma.
Capisco anche come i romantici abbiano sentito il bisogno di tutto quel
fracasso, di Sturm e Drang, come Rimbaud e Verlaine abbiano
detto ‘ciao!’ alle leggi della tua natura
e Baudelaire, dopo i fumi di alcool e oppio, abbia incensato l’isola di Saffo.
Già, Saffo… Una per cui la passione amorosa era il sommo bene, superiore a
famiglia e valor militare. Andate a dire una cosa simile a un legislatore… non
solo a quelli d’una certa epoca o parte politica…
A pensarci bene, Platone, chiunque
(anche prima di Freud) deve aver sentito l’impellenza, più o meno repressa, di
mandarti a quel paese. Anzi, di ucciderti… come avrebbero voluto fare i
futuristi col chiaro di luna. Ma il chiaro di luna è sempre lassù e tu sei
sempre nelle biblioteche. Un po’ meno nei cuori dei giovani –mi spiace per te.
In quelli, sei, se non morto, almeno acciaccato e indolenzito. Anche più di
quanto meriti. Verrà il giorno (non lontano) in cui, anziché te, bisognerà
uccidere l’Ego straripante e ingordo: l’utopia del “faccio-quel-che-voglio-io”,
che ci metterà nel sacco, come la tua καλλίπολις, come tutte le utopie. Quelle
che promettono una “perfezione” onnifrontale, una bella pensione d’anzianità ai
nostri problemi… salvo chiederci, come moneta, la nostra carne viva. Allora,
tornerai buono anche tu.
Del resto, hai insegnato pure belle
cose: il dialogo come strumento per partorire un’idea (anziché quei bei
discorsetti di gradevole effetto “sonoro” che piacevan tanto a Protagora &
co.); il dovere di istruire le donne quanto gli uomini; la necessità delle
“critiche al sistema”; una prima forma di meritocrazia...
Ma, chissà perché, da questi orecchi, i tuoi recettori eran, perlopiù, sordi.
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