Sarà per il recente naufragio del sottomarino Titan, che andava appunto a visitare il celebre relitto; sarà perché più volte ho meditato di rivedermi per intero e consapevolmente questo film cult, uscito quando io frequentavo ancora le scuole elementari… Comunque, ho guardato per intero Titanic (1997; regia di James Cameron) all’età di trentatré anni, quasi trentaquattro. Ventisei anni dopo la sua uscita.
Questo,
ovviamente, ha inciso notevolmente sulla prospettiva con cui ne ho fruito.
All’epoca, non avrei avuto gli strumenti per apprezzare fino in fondo questo
capolavoro dal grande impatto cinematografico e che riunisce diversi generi
apparentemente opposti fra loro (storico, sentimentale, epico, catastrofico,
persino realistico-sociale per certi versi). Non ho avuto la distrazione della
“Di-Caprio-mania” dilagante all’epoca (a proposito, Leo: ti chiedo scusa per
aver capito solo dopo decenni che Signor Attore
tu sia e non solo per il viso carino che avevi da giovane).
Non c’è
bisogno che riassuma la trama. Anche a così grande distanza temporale, chiunque
si ricorderà degli indimenticabili Jack e Rose, del loro amore contrastato e
dei loro interpreti: il succitato Leonardo Di Caprio e Kate Winslet (anche lei,
da giovane, di una bellezza da far impallidire le modelle preraffaellite, se mi
permettete). Vorrei giusto spezzare una lancia a favore di Billy Zane, che ha
sostenuto il ruolo di Caledon Hockley, l’odioso fidanzato imposto a Rose: ho
trovato la sua performance grandiosa. Mai, in vita mia, ho detestato tanto il
“cattivo” di un film.
Mi
rincresce di non aver visto la pellicola sul grande schermo. È stata fatta per
essere monumentale, che si trattasse di panoramiche della nave, dell’oceano a
volo d’uccello o delle apocalittiche visioni del naufragio. Ma quello che mi ha
colpito di più è il profondo contenuto esistenziale della medesima.
La nave come “metafora della vita” è secolare e funziona sempre. Nel caso del
Titanic, inaugurato e affondato nel 1912, essa è particolarmente efficace. Il
colosso, infatti, ospitava un campione dell’intera società dell’epoca, dalla
terza alla prima classe. Enorme e vario, era un mondo intero e il suo naufragio
(nel film) ha proprio il sapore di una fine
del mondo, sottolineato dalle citazioni dell’Apocalisse declamate da un
sacerdote in quel frangente.
E chi
deve farsi strada in quel mondo? Gli esempi sono loro, Jack e Rose: due
adolescenti appena affacciatisi alla vita. Lui è il classico artista bohémien,
senza radici, ma affamato di nuove esperienze. L’esistenza, per lui, è un insieme di opportunità che coglie
con semplicità e gratitudine, senza mai annoiarsi o angosciarsi. Ha una
capacità di adattamento incredibile, un entusiasmo travolgente, una grande
apertura a ogni direzione del possibile.
Dall’altra
parte, c’è lei: una ragazza istruita, ironica, d’intelligenza penetrante, colma
di coraggio ed esuberanza. Ma tutto questo è compresso nel corsetto delle
convenzioni che la soffocano. La sua vera personalità ribolle e aspira ad esplodere, anche a costo di
prendere direzioni autodistruttive. Come Jack, è sensibile all’arte; ha una
spiccata preferenza per correnti come l’Impressionismo e il Cubismo, in cui – a
suo dire – “c’è verità, non logica”, come in un sogno notturno. Conosce il pensiero
di Freud, di cui si serve per smontare le false sicurezze di chi la circonda.
Ha una lingua di vipera arguta e assolutamente adorabile. Insomma, è una
conoscitrice dei fermenti culturali più rivoluzionari
del primo Novecento, quelli che cambieranno per sempre il volto dell’Europa
e non solo.
Già da
tutto questo sono evidenti l’irrequietudine, la voglia di vivere e
l’irriverenza anticonformista che uniscono i protagonisti. Insieme, sono una
sfida all’epoca boriosa del Futurismo,
col suo culto della macchina potente, della velocità, del primeggiare a ogni
costo – mentalità alla base della catastrofe targata Titanic.
A separarli, c’è “solo” il muro delle loro differenti condizioni sociali. Ma, a ben vedere, anche questa differenza economica è puramente apparente. Se Jack è povero, Rose è una falsa ricca. Tutto quello che possiede veramente è un mucchio di debiti lasciati da suo padre. (Chissà se suo padre assomigliava all’ingegnere del Titanic, quello che le chiederà scusa di non averle preparato una nave/vita migliore…) Il suo fidanzamento combinato con un arrogante uomo d’affari è l’unico appiglio che potrebbe salvare lei e la madre dalla bancarotta. Una pressione eccessiva sulle spalle della giovinetta, che, in una scena-chiave, tenta il suicidio. E qui arriva Jack a salvarle la vita. Ma non si cade nel banale schema “cavaliere/donzella in pericolo”. Rose deve soprattutto salvarsi da sola e ricambiare a suo tempo il favore.
Del resto, per dire d’aver salvato una vita, non basta impedire a qualcuno di buttarsi in mare. Occorre che l’interessata si renda conto che il suo desiderio di felicità ha pieno diritto di cittadinanza, che una sana leggerezza la salverà. Può evitare di venire chiusa nella cassaforte che il fidanzato chiama “amore”. Ed è qui che entra in gioco la felice metafora del “Cuore dell’Oceano”, l’agognato diamante da cui prende avvio la trama del film. È fin troppo evidente che si tratta del cuore di Rose, o di Rose stessa. Ricercato da molti, non diverrà possesso di nessuno. Rimane a lei, finché (sentendosi avvicinare la morte) la donna non lo restituisce ai fondali, dove Jack è rimasto ad attenderla. Del resto, proprio Rose ultracentenaria paragona i segreti del cuore femminile ai misteri degli abissi.
Al cercatore di tesori rimane qualcosa
di ben più prezioso del diamante: la comprensione del senso di una tragedia emblematica. Se la folle superbia umana può
portare il mondo verso il naufragio, il coraggio di una scelta autentica può
permettere alla vita di salvarsi e proseguire. L’amore di Jack e Rose è un carpe
diem nell’accezione più
profonda: loro non lo sanno, ma si stanno amando sull’orlo della Morte, quella
forza tremenda capace di rivelare (come un lampo nel buio) il valore d’ogni cosa. Come loro, ogni persona vivente è chiamata a scegliere nel qui e ora, con la coscienza che il
minuto della scelta può essere l’ultimo e decidere di tutta la sua esistenza.
Perché nulla a questo mondo è inaffondabile – anche se può diventare leggenda.
P.S. Per la scena in cui Rose manda a quel paese il fidanzato, sto ancora invocando i 92 minuti di applausi di fantozziana memoria.
Commenti
Posta un commento
Si avvisano i gentili lettori che (come è ovvio) non verranno approvati commenti scurrili, offese dirette, incitazioni all'odio di qualunque tipo, messaggi che violino la privacy o ledano l'onore di terzi. Si prega di considerare questo blog come uno spazio di confronto, così come è stato fatto finora, e non come uno "sfogatoio". Ci scusiamo per eventuali ritardi nella pubblicazione dei commenti: cause (tecnologiche) di forza maggiore. Grazie.