Le
croste delle pizze si accumulano lentamente al bordo dei piatti - tre, uno per
ciascuno dei commensali a quella piccola tavola. Una coppia di sessantenni e
una ragazza che ha poco più di vent’anni. La televisione è accesa, nella
pizzeria-ristorante; i camerieri vanno e vengono dall’altra sala, dove è
allestito il buffet d’antipasti.
«Dunque, non vai più a leggere il
Vangelo in chiesa?» domanda la signora alla ragazza.
L’altra
sorride: «Veramente, è sempre il sacerdote a leggere il Vangelo. Agli altri
toccano le letture, il salmo e la preghiera dei fedeli». Pausa. «Comunque, no.
Ovviamente». O si è credenti, o non lo si è. A questo si riferisce l’
“ovvietà”.
«Sei scomunicata?» aggiunge la donna
- ma con una mezza risata, stavolta. La giovane, però, non ride affatto. «Chi
nega la fede in Dio è fuori dalla comunione cattolica» conferma. Altra ovvietà.
«Questo
ti ha creato problemi con la tua famiglia?» prosegue l’altra, stavolta seria.
«All’inizio, sì. I miei genitori non
capivano cosa mi stesse succedendo… Poi, se ne sono fatti una ragione. Ai nonni
non ho bisogno di dirlo, perché non vivo con loro, quindi la cosa non li
riguarda più di tanto». La ragazza sottolinea con forza l’ultimo concetto. Del
resto, ha trascorso l’ultimo anno a ribadire il confine tra i cavoli altrui e i
propri - spesso, non a causa dei parenti.
«Buffo, però, sentire gente dire che
“la religione è una libera scelta”, quando l’ambiente familiare è così
influente in materia» chiosa, in conclusione.
La signora annuisce: «Adesso,
magari, le cose sono un po’ cambiate… Ma quarant’anni fa… Molta gente che non
era credente faceva battezzare e cresimare i figli solo perché nessuno avesse niente da dire. Io e mio
marito, per coerenza, non l’abbiamo fatto. Siamo stati criticati da tutti per
questo».
La ragazza, dentro di sé, ricorda i
tempi in cui lei era cattolicissima. E ricorda anche di non essersi mai sentita
offesa dal fatto che qualcuno non si sposasse in chiesa o non facesse
battezzare i figli. Se il rifiuto dei
sacramenti viene dalla coerenza, vuol dire che queste persone hanno compreso la
serietà e l’impegno che essi richiedono, pensava nella testolina
adolescente. Questo mi lusinga come
credente, non mi offende.
«Io e mio marito siamo stati fra i
primi a praticare yoga, nel nostro paese» prosegue l’altra. «Sai cosa si diceva
in giro? Ooooh, quelli là fanno le orge,
in casa… tutti nudi…!» Abbassa lo sguardo sul grande piatto di ceramica
bianca. «Ciò che fa male è la cattiveria dell’invenzione.
Perché noi… sì, saremo stati un po’ originali… lui coi capelli lunghi, io che
giravo scalza… Ma non facevamo del male a
nessuno.».
«Era invidia» aggiunge il marito.
«Invidia verso chi fa la vita che tu non hai mai osato…»
Coi
rossi, non sembra essere andata
meglio. «Non hai idea di quante volte ci siamo sentiti bistrattare da quelli di
sinistra…» sbuffa la donna «…perché non
facevamo politica. Noi, la politica, la facevamo con la nostra vita di
tutti i giorni. D’altronde…» prosegue, con un velo di delizioso sarcasmo «i
“comunisti” di oggi sono antifascisti,
antireligiosi, antirazzisti, anti-tutto… ma non sento nemmeno uno dire
“anticapitalista”».
La ragazza, veramente, ricorda che
questa parola non era poi così passata di moda, nei collettivi universitari.
«Appunto. Erano giovani studenti, però» precisa la sessantenne. «I contestatori
di un tempo, in buona parte, nel sistema si
sono inseriti benissimo». Forse, qui, c’è anche l’amarezza dei piccoli
esercenti costantemente minacciati dallo squalo del grande capitale. Non è
antisessantottismo vero e proprio. «Io posso capire perché gli studenti, nel
Sessantotto, diventassero anche aggressivi… Quando si è giovani e ci si vedono
chiudere in faccia tutte le altre vie di dialogo, non si può fare diversamente» sospira ancora la donna.
“Invidia”. Questa parola rimane a
ronzare nella testa della ragazza. Chissà che, davvero, non sia questo il vero
nome del pregiudizio.
Pubblicato su Uqbar Love, N. 170 (11 febbraio 2016), p. 3.
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