La
Mostra del Giocattolo Antico, organizzata nell’ex-bocciodromo di Manerbio dal
29 settembre al 14 ottobre 2018, è stata apprezzata da singoli e da scolaresche.
L’iniziativa era firmata dal Comune, dalla Biblioteca Civica e dalla Fondazione
Casa di Riposo Manerbio Onlus. Ma è stata possibile solo grazie alla famiglia
di Giampaolo Tomasini, ribattezzato “Geppetto” dopo essere stato fotografato
con alcuni Pinocchi e altri giocattoli lignei. Di professione rigattiere, amava
raccogliere i balocchi rimasti su fienili e solai, a Manerbio e nei dintorni.
Ne risultò una collezione che copriva l’arco temporale 1840-1970 e che è stata
ulteriormente ampliata durante la mostra, grazie a nuove donazioni.
Non mancavano le bambole: dalle
piccole bellezze in porcellana alle più povere, in foglie di granoturco. A
loro, era dedicata (su un cartellone) la poesia La pöa di Angelo Canossi: una
versione dialettale della “morale del giocattolo” di baudelairiana memoria. Il
fascino del balocco, che ce lo fa quasi sembrare una persona da amare, è tutto
nella sua magica integrità. Non appena smontato, ci appare come una banalità
ripugnante. Ma, allora, cosa amiamo, quando amiamo? Dov’è l’ “anima”?
Sia come sia, i pezzi esposti
sembravano cercarne una negli occhi dei visitatori. Oltre alle bambole, i
servizietti da tè, i mobiletti in miniatura (resti del lavoro dei falegnami,
che progettavano su misura), i giochi da tavolo, i puzzle e i burattini. Anche
gli strumenti musicali (perlopiù a fiato, come pifferi, ocarine e fisarmoniche)
erano esposti. Poi, armi finte come gli “schioppi” di legno, barchette, biglie
colorate o trasparenti, altalene, animaletti, scherzi di Carnevale (soprattutto
specchietti per sbirciare sotto le gonne)… Il tutto circondato da cartelloni
che riportavano filastrocche dialettali o varianti nel nome di un gioco: l’altaléna era anche la baltéga… e mille altre cose. Così come le cìche o cicòcc, o il gioco della palla…
Una
foto ricordava il girotondo, un tempo apprezzato anche dagli adolescenti. Non
propriamente giocattoli, ma sempre legati all’infanzia, erano il banco di
scuola, la lavagnetta e la pietra di gesso recuperata dal fiume (i pennini
costavano…). Così pure i cesti in cui le contadine sistemavano i lattanti sui
rami degli alberi, durante il lavoro; o le “culle da stalla”, per tenere i
piccoli in un ambiente caldo. Fabbricati in casa erano anche i vari sostegni in
cui permettere agli infanti di stare in piedi (il pelòt o stentaröl) o di
correre su e giù senza cadere (la curidùra).
I
pezzi più rari, nella collezione dei Tomasini, sono però i giocattoli in legno
e i più poveri. Erano esposti i caalì dè melgàss: gambi di granoturco usati
come cavalcature. Poi: le funi per il tiro alla fune, noccioli di pesca
impiegati in giochetti d’abilità, cerchi di ruote da bicicletta, frutta e
pupazzetti portati “da Santa Lucia”… Erano presenti catene per paioli, fatte
lustrare ai bambini il Venerdì Santo: i piccoli si divertivano a trascinarle sul
selciato e ricevevano in premio uova o altro cibo. Anche il grì o raganèla,
la tàcla e la pentàcola servivano ai piccoli per fare baccano in occasione
della morte del Signore.
Giocattoli poveri. In alto: i caalì dè melgàss. |
Il “gioco della paura” era un vaso in cui era stata ritagliata una faccia
ghignante, illuminata dall’interno con una candela. Era pensato per il mese del
rosario: le cappelle circondate da alberi, nelle sere buie, erano luoghi ideali
in cui spaventare gli amichetti con quella sorpresa. Di gusto un tantino sadico
era anche la “corsa del gatto” o del “cane”: le zampe della bestiola venivano
infilate in gusci di noce e il divertimento veniva dalle acrobazie con cui
cercava di muoversi. Un modo per scaricare le tensioni di un’esistenza
trascorsa a stretto contatto con gli altri bambini e con gli animali. Una vita
insieme, nel bene e nel male.
Pubblicato su Paese Mio
Manerbio, N. 138 (novembre 2018), p. 18.
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