Chi
più, chi meno, abbiamo sentito tutti quanti nominare la “legge Basaglia”: quella popolarmente nota, appunto, col nome dello
psichiatra Franco Basaglia (Venezia,
1924 - ivi, 1980). Si tratta della legge 13 maggio 1978, n. 180: “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 maggio
1978, n. 133. La sua promulgazione, per l’appunto, era legata a doppio filo con
fermenti di riforma che vedevano protagonista il suddetto. La direzione
intrapresa era quella di una “psichiatria dal volto umano”, meno repressiva e
autoritaria.
Liberi tutti, dunque? Siamo nell’era della
“psichiatria felice”?
Purtroppo, testimonianze odierne mostrano che il
cammino dei pazienti e delle loro famiglie è tuttora una strada in salita, non
priva di incomprensioni col personale medico e di carenze istituzionali. Due
storie che ci toccano da vicino, per la giovane età delle persone coinvolte,
sono quelle a cui daremo voce oggi.
Valerio
Gaio Pedini (N. Abbiategrasso, 1995) è un giovane poeta e dandy. Ha
pubblicato Cavolo, non è haiku! (2014,
Irda Edizioni) e Prospettive di Axaji Madhugah
(2016, Ed. Progetto Cultura). Estroso, fantasioso e con una gran
parlantina, gli è sempre piaciuto distinguersi. A sedici anni, faceva
volontariato in un’associazione di disabili psichiatrici. Ha frequentato anche
corsi di scrittura creativa ed era appassionato di teatro.
La sua vita è stata stravolta dalla schizofrenia,
comparsa improvvisamente. Il passaggio da una cura all’altra ha causato
conseguenze anche fisiche. Stravolto nel corpo e nello spirito, Valerio ha
preferito ritirarsi dal mondo. Un allontanamento da casa, in preda alle sue
visioni, l’ha portato a rischiare seriamente la vita.
Valerio Gaio Pedini |
Dopo questo episodio, è stato ricoverato in un
reparto psichiatrico. Ha scoperto che la maggior parte dei farmaci ha scarso
effetto su di lui, o addirittura peggiorava le sue condizioni, tanto da
costargli un TSO. Altre medicine, altri trattamenti che hanno deluso le
speranze, globuli bianchi indeboliti. Valerio ha sopportato flebo continuamente
attaccate al suo braccio e dolorosi esami di ematologia. I suoi familiari
l’hanno assistito perennemente, costasse quel che costasse; sono state le
uniche persone a rimanere nella sua vita.
Il calvario del ragazzo non è finito. La madre,
Luciana Borgnis, vorrebbe farlo trasferire ulteriormente, alla ricerca di una
terapia personalizzata che finalmente funzioni. Ma ciò le viene negato. Non si
può, le dice il personale medico: la distribuzione dei pazienti è strettamente
legata al territorio. «L'ospedale in cui si trova lui ora è una struttura
d'urgenza TSO, ma poco specializzata nell'impostazione di cure di mantenimento.
Il dramma è che Valerio non è giudicato dimissibile, in quanto non ancora
emotivamente stabile» ha spiegato Luciana. Solo la mancanza di posti letto in
loco consentirebbe un temporaneo trasferimento.
Un’altra
storia è quella di Barbara: cinquantaseienne, con una figlia alle soglie
della maggiore età. A quindici anni, la ragazza ha cominciato a soffrire di
autolesionismo e problemi relazionali. Il suo disturbo sarà pienamente
identificabile solo dopo i ventun anni. A causa di indiscrezioni sul suo stato
di salute mentale, ha subito anche cyberbullismo.
Barbara
non ha potuto trovare, nel luogo di residenza, un reparto di neuropsichiatria
infantile. Così come a Luciana, non le è stato permesso di trasferire la figlia
in un’altra struttura, in nome della distribuzione territoriale dei pazienti -
sebbene questo significhi forti limitazioni nella necessaria personalizzazione
della cura. Anche le risorse umane e i fondi sono distribuiti inegualmente
nelle varie località: ciò non fa che acuire il problema.
Il carattere “umanistico” e profondamente
soggettivo della salute psichica fa sì che abbia più rilievo che in altri
campi la qualità del rapporto fra paziente e psichiatra. Ci devono
essere forti dosi di sintonia ed empatia. L’obbligo di avere a che fare con
professionisti coi quali tale relazione non si stabilisce è perciò deleterio.
Si aggiunga il fatto che i metodi di cura sono assai diversificati:
dalla preponderanza degli psicofarmaci a una loro limitazione, ecc.
Per
ottenere trattamenti almeno un poco adatti alla figlia, Barbara ha dovuto
attivarsi per conto proprio. Ha trovato uno Uonpia (Unità operativa di
neuropsichiatria per l’infanzia e l’adolescenza) che faceva al caso suo. La
ragazza ha altresì potuto proseguire le cure con lo stesso psichiatra di prima,
benché l’avvicinamento alla maggiore età le imponesse (teoricamente) di
cambiarlo - visto che il dottore si occupava di neuropsichiatria infantile. Il tutto, però, unicamente
per l’impegno della famiglia e per la disponibilità del medico
curante. Discrezionalità, mobilità rifiutata ai pazienti, burocrazia,
eccessivo peso sulle spalle delle famiglie: in questo collimano le storie di
Valerio e della figlia di Barbara, svoltesi nella medesima regione del Nord
Italia.
Al
di là delle carenze amministrative del sistema ospedaliero, ci sono speranze
di guarigione, per chi soffre di patologie mentali? Sembrerebbe di sì. «Ho
avuto modo di parlare con persone affette da disturbi psichiatrici che comunque
lavorano, hanno famiglia e sono autonome» ha affermato Luciana Borgnis.
Nel caso della schizofrenia, è possibile consultare
on line un articolo del dott. Giuseppe Tibaldi e di Lia Govers: Evidence-Based Hope. La proposta di una prospettiva comune, in «Psichiatria di comunità», volume VIII, N. 3,
settembre 2009, pp. 117-128. Le speranze qui offerte non sono tanto di
guarigione clinica (totale scomparsa dei sintomi) quanto di guarigione
funzionale: un’attenuazione dei sintomi almeno al punto da consentire una
vita sociale e lavorativa. Per arrivare a questo risultato, secondo l’articolo,
sono determinanti anche fattori non strettamente scientifici, come l’atteggiamento
nei confronti del paziente (supportante o pessimistico? Tollerabile o
assillante?) e le “seconde possibilità” offerte dalla società. Anche il tempo
è indispensabile: nel recupero della salute mentale, deve essere bandita
ogni fretta.
Sempre
il dott. Tibaldi usa la metafora del “dittatore psicotico”, per indicare
ciò che vivono le persone schizofreniche: “Un nucleo psicotico alberga in
ognuno di noi e può emergere se si vengono a determinare circostanze, esterne ed
interne, sfavorevoli. Nelle persone che ricevono una diagnosi di disturbo
schizofrenico, questo nucleo prende il sopravvento e assume, molto spesso, le
caratteristiche di una vera e propria ‘dittatura’: gli altri nuclei di identità
sembrano annientati,
mentre, in realtà, essi sono costretti all’esilio, od
al confino. Il dittatore tenta di prendere un
controllo
assoluto e di convincere tutti (professionisti compresi) che il suo dominio è
destinato ad essere irreversibile” (Le speranze di guarigione dalla schizofrenia hanno solide fondamenta: coltivare aspettative favorevoli è legittimo, per
professionisti, famigliari e “pazienti”, in «Progetto Itaca News»,
Periodico Semestrale dell’Associazione Volontari per la Salute Mentale Onlus,
N. 19, maggio 2013, p. 2). La guarigione funzionale nascerebbe dunque dal
rovesciamento di un dominio fragile e provvisorio, grazie alle “forze della
resistenza”: il diretto interessato, la famiglia, lo psichiatra, la società.
Perché “follia” e “saviezza” sono personali - ma non provengono da uno solo.
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