“Ai
margini dell’urbano, ai limiti del figurativo”. Così recitava il sottotitolo
della mostra “Boundaries”, che, in inglese, significa “confini”.
L’esposizione ha raccolto le tele di Stefano Santi (Acquafredda, 1965):
architetto e pittore. La sede era la Sala Mostre (o “Sala Caminada”) di Palazzo
Luzzago; l’evento era presentato dal Comune di Manerbio. Le opere sono state
visibili al pubblico il 18 e il 19 giugno 2016. L’introduzione è spettata al
prof. Massimo Rossi, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Sue
erano queste eloquenti righe in locandina: «Con Stefano Santi vi è una facile tentazione
di realismo. Dopo pochi attimi, tuttavia, ci si accorge di quanto la questione
sfugga al semplice sguardo per divenire, quindi, memoria, impressione,
struggimento, interrogazione. Un viadotto non è più una banale infrastruttura e
una corsia autostradale sgrana, veloce, in un metaforico orizzonte in fuga».
I soggetti preferiti di Santi, infatti, sono i margini
della megalopoli padana: quei non-luoghi dove è impossibile comprendere se ci
si trovi in città o in campagna. L’asfalto e il cemento sembrano aver
cancellato ogni reale confine. Nella scelta dei materiali, predomina la
concretezza: niente acquerello o matita; preferibilmente acrilico e colori a
olio, ma anche gesso. Eppure, quei dipinti così materici da poter essere
(apparentemente) toccati sfuggono, se li si guarda da vicino. Un attento
osservatore si rende conto che si tratta di impressioni fissate sulla tela. Il
lavoro di Santi è una costante ridefinizione delle figure, che sono vive, quasi
guizzano e si trasformano sotto il suo pennello. Santi è architetto; conosce
benissimo le linee fondamentali di quei ponti, viadotti, tratti autostradali.
Potrebbe disegnarli con impeccabilità matematica. Ma vuole guardarli come
qualcosa di altro: come visioni, indefiniti margini (appunto) fra realtà e
impressione personale, fra luce e ombra. “Twilight” (= “Crepuscolo”) s’intitola
significativamente uno dei quadri. Il crepuscolo è una striscia di luce fra
notte e dì; non è più giorno e non è ancora tenebra. Compare all’orizzonte di
una grande strada extraurbana.
Altri protagonisti sono muri, lavanderie e viuzze di
quelle aree che verrebbero dette “degradate”: frazioncine sperdute o periferie
urbane. Tutte, comunque, sono ritratte in modo spassionato, come visioni fra le
visioni. A Santi non interessa documentare. Dipinge anziché fotografare, perché
il pennello può dare al soggetto un aspetto umanizzato e personale. «Il mito da
decostruire è che il paesaggio contemporaneo sia brutto, o deprimente»
interpreta Leonardo Tonini, sul catalogo della mostra. «Le sue opere non
indugiano nella commiserazione, […], ma mostrano semplicemente il territorio
come somma delle nostre storie individuali e come prodotto del nostro stile di
vita. E lo scandalo, il perturbante, nei quadri di Stefano è che i suoi quadri
sono belli».
Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 110 (luglio 2016), p. 6.
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