Passa ai contenuti principali

La nipote del diavolo - III, 1

Parte III: Colloqui



1.

Michele Ario attraversò l’arcata profonda e biancheggiante dell’ingresso e il cimitero di Pavia si aprì a lui. Camminò a fianco dei portici che ombreggiavano i loculi, disegnando un percorso invisibile e noto fra i vasti cortili. Giunse infine a una tomba di famiglia, con il cognome ben in vista sul frontone: “ARIO”. 

            Angeli femminei, dalle vesti fidiache, tendevano ai visitatori le mani ormai erose. Lui distolse lo sguardo da loro ed estrasse una chiave dalla tasca. Aprì il cancelletto del cenotafio.
All’interno, gettò un’occhiata alle pareti punteggiate da loculi – ciascuno con scheletri di fiori e lumini estinti. Solo quattro lapidi sembravano aver ricevuto qualche cura: quelle dei genitori di lui, gli anziani coniugi Ario; quella del fratello Leonardo; e quella di Virginia Lupi in Ario, la moglie di quest’ultimo.
            Michele si soffermò sull’ovale incorniciato della fotografia. Luminosi occhi azzurri, incarnato d’alabastro, ricche chiome color autunno. Virginia era una versione più matura della figlia Nilde, ma con un raffinamento di malinconia che la giovane amazzone non aveva mai conosciuto. Lo psicologo si lasciò indagare da quegli occhi di patina; la mano appoggiata sulla lastra di marmo gli trasmetteva un gelo vibrante.
            Guardò verso il basso. Non un loculo aveva voluto per Nilde, ma un sarcofago decorato col volto d’un angelo preraffaellita. Là le avrebbe fatto passare il breve soggiorno da morta apparente, se non fosse fuggita dalla camera mortuaria del Policlinico. Avrebbe lasciato qualche spiraglio, nella chiusura del sepolcro; e, nottetempo, avrebbe liberato la ragazza lui stesso, come una novella Giulietta.
            Era andata diversamente. Pazienza.
Sfiorò l’orlo del sarcofago. Troppo piccolo per lui. Nilde avrebbe dovuto rivedere la propria promessa di seppellirlo lì dentro.


[Continua]

Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (5 luglio 2016).

Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

"Gomorra": dal libro al film

All’inizio, il buio. Poi, lentamente, sbocciano velenosi fiori di luce: lividi, violenti. Lampade abbronzanti che delineano una figura maschile, immobile espressione di forza.   Così comincia il film Gomorra, di Matteo Garrone (2008), tratto dal celeberrimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. L’opera del giornalista prendeva avvio in un porto: un container si apriva per errore, centinaia di corpi ne cadevano. Il rimpatrio clandestino dei defunti cinesi era l’emblema del porto di Napoli come “ombelico del mondo”, dal quale simili traffici partono ed al quale approdano, da ogni angolo del pianeta. Il film di Garrone si apre, invece, in un centro benessere, dove regna un clima di soddisfazione e virile narcisismo. Proprio qui esplode la violenza: tre spari, che interrompono il benessere e, al contempo, sembrano inserirvisi naturalmente, come un’acqua carsica che affiora in un suolo perché sotto vi scorreva da prima. Il tutto sottolineato da una canzone neomelodica italiana: i