Valerio Pedini…
Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995 ad Abbiategrasso
in provincia di Milano.
Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza
onorificenze, decide di patrocinare il suo primo evento culturale, “Artiamo” , una mostra d’arte unita alla
poesia e alla musica.
Nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo
l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare che
comunque gli è utile per i suoi lavori sul movimento; a scrivere,
pubblicando in collaborazione col
circolo narrativo AVAS Gaggiano, per
le antologie “Tornate a casa se potete”,
“Rigagnoli di consapevolezza”, “Ma tu da dove vieni?” (quest’ultima in
collaborazione con Mambre).
Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto “Non uno di meno Lampedusa”, insieme
alla poetesse Agnese Coppola, Rossana
Bacchella, Savina Speranza e alla narratrice Aurelia Mutti, con lo scopo di dare una voce poetica e artistica
alla tragedia di Lampedusa (si sta preparando inoltre un’antologia).
A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi
progetti poetici: “La formica e la
cicala”, “Essence”, “Pan in blues e in jazz”.
Ha contribuito a un progetto artistico diretto da Agnese
Coppola, che tratta del doppio nell’arte, e sta facendo studi teorici sulla
poesia intesa come caos.
Inoltre sta lavorando a un libro di filosofia, che tratta
della mediazione della paura di massa, e a una silloge poetica (“L’Impero dei
non luoghi-luoghi comuni”).
A maggio è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: “Cavolo, non è haiku”, ed è stato inserito nell’antologia poetica Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni)
e successivamente sempre con deComporre Edizioni nelle antologie poetiche Forme Liquide, Scenari Ignoti,
Glocalizzati, Ad limina mentis e, per la narrativa, Postmoderno Immaginario.
Suoi testi poetici e critici sono apparsi nel blog L’ombra delle parole curato da Giorgio Linguaglossa e nel blog di Francesco Filipponi, di cui è
co-amministratore.
Suoi appunti critici sono comparsi inoltre su l’Osservatorio Letterario e su la
rivista indipendente Antisociale (di
cui è co-amministratore critico), sue poesie sono apparse sulla rivista
nazionale Avanguardia e sulla
rivista indipendente Rapsodia.
E’ comparso nell’antologia curata da Ambra Simeone “Scrivere un
punto interrogativo”.
E’ in fase di pubblicazione la silloge Litanie, con prefazione di Ambra Simeone.
Allora Valerio, c’è qualcosa di strano nell’aria?
Considero la questione
interessante solo da un punto di vista meramente relativo. Se non fossi uno
studioso di sociologia, e un sintetizzatore storico, mi allarmerei e ti direi
che non solo c’è qualcosa di strano nell’aria, ma che quel qualcosa di strano
provoca un terribile afrore. Credo che i rimandi più doverosi siano da fare in
questo a un crollo della società solidamente intesa, e a un crollo dell’idea
del simbolo. Più o meno, come per la rappresentazione pop, il simbolo ripetuto
ad nauseam rischia di dissolversi, per poi probabilmente costruirne un altro.
Ricorda un po’ il passaggio tra Amon e Athon, insomma, è una transizione
importante, probabilmente doverosa. Posso semplicemente ipotizzare, ma dire con
fermezza quel che accadrà no. L’unica cosa certa è che, come al solito, ci sarà
un bel pianto e tutto sarà come se non fosse mai successo.
Vai sempre dritto per le tue mete?
Dritto, sbilenco, in
diagonale, a balzi: qualche volta ci si ferma per pensare e poi ancora avanti.
Sicuramente il termine “dritto” mal si addice a un artista e a uno studioso,
anche a un uomo in generale, in quanto essere vulnerabile e volubile. Posso
semplicemente dire però con fermezza, che, per creare un mio pensiero, mi sono
sacrificato e ho perso spesso di credibilità, oltre ad aver perso molti cari.
Un comune mortale mi direbbe che sono un coglione (lo penso anch’io), ma la mia
maschera attorale mi dice che ho fatto bene eccome, perché almeno nel mio
settore sto migliorando e sto raggiungendo piccoli obiettivi, che, fossilizzandomi
in idee provvisorie, mai avrei agguantato. Quindi per i cliché io vado dritto
verso i miei obiettivi, che sono in definitiva solo uno: la mia filosofia di
vita.
E’ da stranieri incontrarti lungo un percorso?
Stranieri ai più,
conosciuti ai meno. Apprezzo le minoranze. Poiché io sono una minoranza. Anche
se in definitiva ti direi con una frase pirandelliana: “così siam tutti!”.
Quindi autoironicamente più che da stranieri è da persone che hanno tanta
pazienza, ah ah ah.
Si possono considerare certe avventure banali? Se sì allora quali sono?
A posteriori
l’avventura più incredibile della vita può essere banalissima se in futuro se
ne proietta un’altra. Ma sta di fatto che ogni avventura che possa in futuro
risultare banale è un tassello che incide moltissimo quella grande struttura
che è la nostra personalità, che per la gente era l’unica ma ch’è sempre
molteplice: non esiste una soluzione unica, così come non esiste una
personalità. Faccio un esempio: io da attore che sono ho sviluppato nel corso
degli anni una passione incredibile per le maschere, e la personalità è
nient’altro che una maschera in formato gigante che racchiude dentro sé, come
la famosa bambola della fecondità, un insieme di maschere: da quella apatica, a
quella comica, da quella dotta, a quella ignorante. Non esiste una personalità
unica in noi, poiché è la somma delle avventure, ergo delle maschere che
abbiamo indossato e che indosseremo. Ed è da maniacali ipocriti pensare che la
faccia di Valerio non possa diventare un giorno la faccia dell’albero Eucalipto
(tanto per sparare una troiata…!). Spesso parlo di cose che mi hanno deluso, ma
mi hanno reso quello che sono, o meglio, quello che dico d’essere.
E’ possibile aggredire con le parole di un messaggio pubblico?
Beh, il messaggio
pubblico è già di per sé un’aggressione. Ora dobbiamo capire solo che tipo di
aggressione sia. C’è l’aggressione manipolante, ovvero quella rozzamente
chiamata dai critici “democratica” (termine pomposo che potrebbe designare
qualsiasi cosa), oppure l’aggressione che serve ad allontanare, a respingere.
Io ho sempre preferito la seconda: ha una dimensione più profetica e più
aggressiva. La prima è l’aggressione totale, ovvero la manipolazione delle
menti. E’ un po’, senza offesa, quello che fanno i politici e i giornalisti.
Gli attori, i poeti, gli scrittori tradizionalmente o respingono o manipolano:
ci sono quelli più discreti che scrivono e basta, per loro. Alla fine tutto è
utile, anche ciò che mi dà disgusto. Un esempio spiccio: se George W Bush non
fosse stato presidente degli Stati Uniti, Carlos Fuentes non sarebbe diventato
noto pigliandolo per il culo.
Denunciare vuol dire sconvolgere cosa di preciso?
Quel “preciso” mi
suona come una minaccia. Ognuno denuncia quel cazzo che vuole. Non c’è una
denuncia precisa, ci sono molteplici inclinazioni che si palesano denunce. Per
me, però, che faccio arte di denuncia mi indirizzo in svariate direzioni, in
una dimensione sociologica, antropologica, a volte anche religiosa con
l’obiettivo, da sintetizzatore, di indicare un percorso. A volte leggendomi
vedo una svariata connotazione profetica, a volte invece preferisco utilizzare
la tragicommedia. La cosa certa però per me è che, con il crollo di quelle
certezze che vi erano prima, il ritorno preponderante di una Tragedia possa
esserci. Il novecento, con l’inclinazione nichilista del super uomo ha reso
tutto Dramma, è caduta una punizione che non fosse prettamente umana, ma
divina: la tragedia non ha ragione, ha solo azione. Nell’inclinazione futura
credo e spero che, come cerco di definire io con i miei appunti critici e la
mia opera teorica l’antiuomo, con il crollo dell’individuo si crei una
punizione drammaturgica quasi divina. L’Africa avrà uno sviluppo incredibile,
secondo me, per tutto questo. E l’avrà anche l’Occidente. Solo che credo che
nella dimensione consumistica la punizione sarcasticamente sarà una punizione
fantoccio.
Conosci meglio le gioie o i dolori della tua vita?
I dolori (ma spesso le
gioie). Poiché dolore e gioia, la logica non lo dice, ma sono la stessa cosa, o
meglio, sono marito e moglie.
Per quale punto di vista la quotidianità non si lascia raccontare?
Confesso che, a mio
avviso, questa è la più bella domanda che mi si potesse fare! Il quotidiano si
può raccontare, tanti l’hanno fatto e tanti lo fanno: se si fa, si può (l’ho
fatto anch’io in Litanie, a esempio). Ma, come per ogni cosa, è il come, è il
pensiero che sta dietro. Ripeto da tempo che sono contrario alla poesia
diaristica del quotidiano, poiché è spiccia, è priva di una costruzione, se mi
è concesso dirlo; e io odio le cose spicce, ma poi un giorno mi trovai dinanzi
ai libri di Ambra Simeone e dissi “cazzo, questo sì che mi piace”. Ma perché?
Perché c’era una struttura che sfociava nella destrutturazione del testo e
nella sua prosa rivedevo quello che chiamo “sospensione”. Eppure ce ne son
pochi, poiché pochi per me pensano quando fanno qualcosa. Ma non è vero che non
si può. Le maschere pirandelliane erano quotidiane, o meglio, erano la
distruzione di quel quotidiano. L’Ulisse di Joyce è la matrice del quotidiano.
Dico insomma allora che si deve parlare del quotidiano… di contro il rischio è
di essere alienanti. E non scherziamo, la quotidianità mica può dirti “Uè ciccio,
oggi non mi racconti”. Sei tu che decidi. L’ostacolo sarai sempre e solo tu.
La poesia logora romanticamente le decisioni definitive dello scrittore
o del lettore?
Di entrambi.
La “responsabilità dei terzi” come la s’identifica culturalmente?
I terzi culturalmente
possono annebbiare un’opera o innalzarla: alla fine sono i terzi a fare
l’opera, non gli autori, poiché sono i terzi a nominare l’autore.
Considerazioni
sulla poetica di Valerio Pedini
La letteratura secondo questo giovane poeta
si sta riducendo in una sorta di lamentela, pubblicabile da qualche perdigiorno incapace anche di stare
in pace con l’apparato riproduttivo, a tal punto d’amplificarne la
volgarizzazione.
Le parti intime mettono in repentaglio
l’attività mentale fin dall’inizio di un giorno nuovo, scoraggiando un intero
pianeta di esseri viventi sopraffatti da dichiarazioni di sole parole, dal
riavvolgimento della memoria per cronache dettagliate, aventi come protagonisti
spesso e volentieri degl’imbecilli che
sfamano il tempo passato.
L’indice
di mortalità è ad appannaggio dei perdenti, è in programma, e non v’è
sollecitazione per chi vuol sopravvivere, trafitto da testimonianze che si
alternano coi pettegolezzi circa una mancanza di coperture per l’eternità.
Pedini non ha intenzione di rimediare la
presunzione d’insegnare come esporre un concetto, semmai invita a riflettere sugli strumenti per comporre, che si stanno allontanando
dalla loro semplicità.
Talmente presi dal pensiero in odor di
bruciato, di diffusione, non ci accorgiamo che dipendiamo eccessivamente dal
mondo virtuale, e guai se si dovesse interrompere la comunicazione, ch’è tutto
tranne che diretta, umana, comportando condanne ristrette agli sbalzatori della
tecnologia.
L’orrore consiste nel decantare le proprie
gesta, e non resta che promettere di tempestarlo di prestazioni sessuali,
trascinanti.
Esprimersi da rapaci intellettuali oggi è come defecare in maniera anomala dopo
aver ingerito l’indispensabile per crescere moralmente, passivi a un Dio
univoco, dunque costretti a soddisfare personaggi senza il benché minimo
riserbo, che volgono alle sconcezze più assurde, che svaniscono nell’irrisorietà
dell’egocentrismo; superiori a un qualsiasi, sincero atto di fede, tanto da
prendersi sul serio.
Valerio decanta con un’ironia di forbito linguaggio il disprezzo per autori
emergenti ma per niente intraprendenti, predisposti magari a dettare il buon
esempio, desiderando di abbattere i complessi d’inferiorità, ma che non
vogliono conoscere l’umiltà.
Il poeta è in grado di fingere d’esserne il
seguace, rimandandogli piuttosto alla loro leggera andatura, arrabbiato per
come costoro non sappiano sacrificarsi, coltivando davvero delle esperienze di
vita, ma nonostante ciò portatori di
successo nel bel mezzo delle banalità, e per giunta con la puzza dell’ignoranza
sotto il naso.
Ma, se si rasserena, Valerio Pedini li
annienta in un sol boccone, rievocando l’educazione alimentare, esasperante,
tipica degli anglosassoni, culturalmente ricercatissimi (ma in fondo è solo
apparenza!).
La maledizione è alla portata di una considerazione di sé che s’ingigantisce
non riuscendo a scaricare tensioni, per un torto passionale che deve uscire
fuori da quel che si è in continuo movimento.
Le domande esistenziali si liquidano, e il
poeta invita confidenzialmente alla dannazione del Prossimo, centellinando una
discriminazione istintiva, mortale, con l’incontinenza, dovuta dall’aver
vissuto la fisicità di un individuo, a segnare i percorsi della chimica.
La
melodiosità della disperazione umana si rifinisce al margine della
riflessione sull’attrattiva di carattere sessuale, che può influenzare un
singolo e poi un’intera collettività drammaticamente.
Col dorso sconvolto di un uomo che non può fare a meno di diventare grande,
si arriva esanimi al culmine di una
dimensione terrena che non si tira a lucido, scoprendo così una condizione
ambientale nefasta, da cui fuggire aspirando al benessere sociale oramai
stravolto.
E si
ride per non piangere, ma ci s’incattivisce a forza di reagire, seccando in
pratica, e soprattutto l’intimo, a scapito di un sistema nervoso che
irrigidisce per sciogliere un’intesa meravigliosa di tanto in tanto, da
custodire tutelandosi in maniera indefinita, selvaggia.
Il bianco e il nero si confondono, non
cercando più d’irrobustire una lesionata collocazione si realizza la tentazione di farla finita con piacere, di nascosto, tra
le abilità di chi t’affianca.
“M’infarino nel petrolio
nelle ossa legnose di una terra tumefatta
e con i tentacoli della morte
scavo trincee nel tuo cervello, per morirci dentro… entusiasta”
scavo trincee nel tuo cervello, per morirci dentro… entusiasta”
Le invocazioni naturali rimbombano dentro
un Valerio Pedini da stimare, che si complessa in prima persona, con un talento creativo ammaliante, da
incoraggiare nella piena, allegorica maturità, nel perenne disagio che
l’attualità arreca, da cogliere davvero, con un orgoglio idolatrante, come
a concepire la sapienza temendo il peggio, la luce nel dissolvimento del
passato, sensibile all’esaurirsi delle vanità.
Per una fenomenologia intaccata
dall’erotismo, per una mostruosità di femminea padronanza che deve divorare
l’intelletto del poeta affinché l’ego scuota il creato.
Convinti di evaporare prima o poi e di non
misurare più alcuna forma d’assenteismo, non diamo importanza al nostro
respiro, i polmoni si deteriorano, e traspaiono significati a noi eternamente
cari, pendenti sul disordine maligno che ferma una qualsivoglia rinascita
dell’essere non solo poeti, bruscamente spettacolarizzato, urlandolo senza
riuscire a fare clamore, con l’immaginario da rimettere in sesto per una profondità oggettiva da intuire
necessariamente.
“…sangue raffermo
nello specchio dell’io…”
Il poeta mi si offre smaniosamente, raccontando
di pessime, storiche vicende, quelle che accadono sul serio, a sovrani dal
potere esagerato, antico… tra questi per esempio v’è uno che rimane offeso
mentre si riposa sotto l’eccezionalità del Sole!
Da ciò, si rileva il debellamento dell’essere e la triste liberazione di possedimenti che
alla fin fine non è mai risultata insolita.
Aggredita
la persona, si ricorre a ulteriore violenza, con squartamenti di vittime
ben presto distribuite come prelibatezze, con
una lussuria decadente che non permette di dare adito ad alcun punto di vista.
“…e la pappa reale fu servita
sul piatto d’oro di un universo scadente”
Il consolidamento del “tempo che fu” nei
resti dell’ego sembra doveroso, concede il reflusso dell’inutilità, lo sterminio
di deprecabili generi di vita, sancendo delle predominanze in riproduzione
indegna, come a volgere sicuramente al sereno.
Per ragionare apprendendo che il peggio
deve ancora venire, per erigere una materialità ineguagliabile, con testi
scritti piacevolmente, ma che offuscano una naturale soluzione energetica, e
fulminano una seduzione di donna sopraffatta dall’uomo, che esce fuori dal moto
universale delle cose.
Vincenzo Calò
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