Lui si chiama Dorian: ovvero, “dorico”. Fin dal nome,
rimanda all’universo estetico greco, quello che ha esaltato –fra l’altro- la
bellezza efebica.
Il ritratto di Dorian Gray (1891) è
l’unico romanzo lasciatoci da Oscar Wilde (1854 – 1900): autore bensì
prolifico, ma di racconti, poesie, pièces
teatrali. Non amava la narrativa di ampio respiro. Anche Il ritratto di Dorian Gray fu composto
per inserzione successiva di capitoli, necessaria a raggiungere la lunghezza
voluta dall’editore. Il risultato, però, non è meno apprezzabile per questo.
Esso è descrivibile con un’espressione impiegata da Lord Henry Wotton nel
romanzo medesimo: “piacevole come un tappeto persiano e altrettanto irreale”
(cap. 3).
La
narrazione si apre nello studio del pittore Basil Hallward, un moderno sileno
rozzo d’aspetto e colmo di bellezza nell’anima. Buona parte di questa bellezza
si è trasfusa nel ritratto appena completato, espressione della sua idolatria
verso Dorian Gray. Come già detto, il giovane modello è accostato a una grecità
idealizzata. Lui è un “Adone, che sembra fatto di avorio e petali di rosa […]
un Narciso” (cap. 1). Basil l’ha già ritratto “come Paride in un’armatura
splendente e come Adone in mantello da caccia e con uno spiedo lucente.
Coronato di grevi fiori di loto […] sulla prua della nave di Adriano, in
contemplazione del Nilo torbido e verde […] sul bordo di un calmo laghetto in
qualche bosco greco…” (cap. 9). Dorian appartiene dunque al mondo degli efebi
cantati dai lirici greci antichi e scolpiti nel marmo. L’infatuazione di Basil
per lui è lo stesso percorso dallo sconvolgimento dei sensi alla ricerca di
bellezza ideale teorizzato da autori come Platone: “Guardai alle mie spalle e
vidi Dorian Gray per la prima volta. Quando i nostri occhi si incontrarono,
sentii che stavo impallidendo. Una curiosa sensazione di terrore mi sopraffece.
Seppi che ero giunto faccia a faccia con qualcuno la cui sola personalità era
così affascinante che, se glielo avessi permesso, avrebbe assorbito tutta la
mia natura, tutta la mia anima, la mia stessa arte. […] Qualcosa sembrava dirmi
che ero sull’orlo di una terribile crisi nella mia vita. Avevo lo strano
sentimento che il Fato avesse in serbo per me squisite gioie e squisiti dolori”
(cap. 1).
Questo sentimento misterioso e
totalizzante non è esente da una forma di gelosia, nel momento in cui Dorian
medita di prender moglie: “Il pittore era silenzioso e preoccupato. Era calata
un’ombra su di lui. Non poteva sopportare quel matrimonio, eppure gli sembrava
migliore di tante altre cose che sarebbero potute succedere. […] Uno strano
senso di perdita lo sopraffece. Sentiva che Dorian Gray non sarebbe più stato
per lui tutto ciò che era stato in passato. La vita si era interposta fra loro…
I suoi occhi si offuscarono […] gli sembrò d’essere invecchiato d’anni” (cap.
6).
La passione dell’artista per l’efebo
genera –come si è visto, il Ritratto eponimo: perno della vicenda, idolo della
religione del Bello e unico vero vincitore, nel vortice di naufragi che segue.
Il pittore morirà per aver visto in volto l’anima trasfusa nel Ritratto. Dorian
morirà perché meno vivo di esso. A persistere e trionfare sarà solo l’Arte. Lo
insegna una vicenda di raffinato omoerotismo, a cui Wilde ha affidato il
manifesto delle luci e delle ombre dell’Estetismo.
Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray and Other Writings, introduction by
Richard Ellman, New York 2005, Bantam Classic. Traduzioni nostre.
Originariamente pubblicato
sul sito di Universigay.
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