Parlare
di Śivaismo significa parlare di possibilità affossate - ma rimaste latenti -
nella spiritualità occidentale. Significa scoprire le radici di quel disagio della civiltà a cui Sigmund
Freud ha dedicato una delle proprie opere più famose - e apprendere la buona novella della sua superabilità.
Di questo si è occupato Alain Daniélou,
nel suo saggio: Śiva e Dioniso. La religione della natura e dell’eros (Roma
1980, Astrolabio-Ubaldini Editore).
Alain Daniélou (1907-1994) studiò
musica e si dedicò alla pittura; alla fine degli anni ’20, conobbe molti
protagonisti delle avanguardie (fra cui Cocteau, Nabokov, Stravinskij). Viaggiò
in Nordafrica, Medio Oriente, Indonesia, Cina, Giappone. Si fermò in India,
dove collaborò col poeta Rabindranath Tagore. Per più di vent’anni, studiò la
musica classica indiana, il sanscrito, l’hindi, la filosofia e la cultura
tradizionale dell’India. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, fondò l’Istituto
Interculturale di Studi Musicali Comparati presso la fondazione Cini, a
Venezia. Col patrocinio dell’Unesco, cominciò a divulgare la musica classica
asiatica. Oltre a ciò, pubblicò saggi sulla cultura, la società e la religione
dell’India. Per i tipi di Astrolabio-Ubaldini, sono comparsi anche i suoi Yoga, metodo di reintegrazione e Storia dell’India.
“Questo libro non è un saggio di
storia delle religioni. Rispecchia un’esperienza personale: la scoperta in
India, in questo museo della storia del mondo, della più fondamentale delle
religioni. Anteriore all’Induismo vedico, allo Zoroastrismo, alla religione
greca, ad Abramo, questa religione originaria appare come il coronamento degli
sforzi dell’uomo, sin dalle più lontane origini, per capire la natura della
creazione, la sua bellezza, la sua crudeltà, il suo equilibrio; e il modo in
cui egli possa integrarsi nell’opera del Creatore, possa cooperare con lui.
Naturistica e non morale, estatica e non rituale, questa religione si sforza di
trovare i punti di contatto fra i diversi stati d’essere e di ricercarne
l’armoniosa cooperazione per consentire a ciascuno di realizzarsi sul piano
fisico, intellettuale e spirituale, e di svolgere compiutamente il proprio
ruolo nella sinfonia universale.” Così si apre l’opera di Daniélou su Śiva e
Dioniso - e così la si potrebbe riassumere.
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Una stampa raffigurante Shiva. |
L’autore prosegue considerando un
dissidio fondamentale presente nel fenomeno religioso: ovvero, le sue opposte
manifestazioni all’interno dei popoli sedentari. Una è legata alla natura, l’altra all’organizzazione della vita urbana. La
prima coincide, appunto, col suddetto sforzo di comprendere il ruolo dell’uomo
quale parte dell’universo ed è sostanzialmente panteistica: non separa la sfera
corporea da quella intellettuale e spirituale. “La creazione nella sua totalità
[…] è in qualche modo […] il corpo di Dio” (p. 13). La spiritualità così intesa
è dunque conformazione al Dharma, ovvero alla “legge naturale”,
a ciò che ciascuno di noi è per nascita, natura, atteggiamenti.
L’altra
manifestazione della religiosità è legata alla città. “Essa pretende di imporre sanzioni divine a convenzioni
sociali. […] Serve di scusa alle ambizioni degli uomini che pretendono di
dominare il mondo naturale” (pp. 13-14). Questo atteggiamento caratterizza ciò
che Daniélou chiama “Kali Yuga”,
“l’Età dei Conflitti”. Esso è da lui attribuito alle antiche conquiste militari
dei popoli nomadi, che non vivevano
in comunione con la natura del territorio, erano portati alla “semplificazione
monoteistica” (p. 14), consideravano l’universo alla stregua di una successione
di pascoli da sfruttare e la divinità una mera guida dell’uomo. In altre parole,
avrebbero prestato alle civiltà urbane un pericolo: quello di “sfociare in una
riduzione del divino a immagine dell’uomo, in un’appropriazione di Dio al
servizio di una razza ‘eletta’” (ibid.).
Fra questo genere di religioni, Daniélou (citando Arnold Toynbee) colloca anche
il Comunismo, come costola del
Cristianesimo “sotto il mascheramento di un lessico non teista” (p. 15).
In
questo quadro, il culto di Śiva si
colloca fra le religioni della natura. “Śiva, come Dioniso, rappresenta un solo
aspetto della gerarchia divina, quello che riguarda l’insieme della vita
terrestre. […] La sua forma occidentale, il Dionisismo, rappresenta anch’essa
uno stadio in cui l’uomo è in comunione con la vita selvaggia” (ibid.). Non è un caso se entrambi i
culti siano stati fortemente osteggiati dalle società urbane come
“antisociali”. Allo stesso tempo, però, l’influsso dello Śivaismo sulla cultura
indiana “ha salvaguardato in gran misura, in India, il rispetto per l’opera del
Creatore e uno spirito di tolleranza fondamentale che altrove è persistito
assai di rado” (p. 17). Dopo gli attacchi mossigli dal Vedismo, dal Buddhismo,
dal puritanesimo cristiano e islamico, lo Śivaismo ha conosciuto una sorta di
chiusura esoterica, che però non ne intacca la vitalità, l’altezza
dell’iniziazione e il ruolo di religione popolare. Le sue origini sono
addirittura rintracciabili nel VI millennio a.C.: si sarebbe trattato di un
movimento culturale esteso dall’India all’attuale Portogallo. Una
manifestazione di esso è individuata da Daniélou nella religiosità degli
antichi Cretesi, in cui compariva la
figura di Zagreo. Il nome di questo
dio “è probabilmente in rapporto col monte Zagron, tra l’Assiria e la Media”
(p. 34). Gli Achei lo assimilarono a Zeus, venerato sul monte Ida, sacro alla
titanide Rea, madre di Zeus. “Questo dio che muore e rinasce reca nuova vita al
fedele che ne penetra i misteri, giungendo al pasto di carne cruda dell’animale
che è lo stesso dio manifestatosi” (ibid.).
Il culto della Madre-montagna e del toro, insieme a quelli del serpente, dell’ariete, del dio cornuto
e del fallo eretto sono altrettanti
simboli connessi a Śiva. A Zeus/Zagreo, gli Achei diedero il nome di “Dioniso”: “dio di Nisa” (p. 35). Il
suo culto si ricollegò all’orgiasmo femminile anticamente praticato in
Tracia. Nisa è un toponimo che indica il monte dell’Elicona ove Dioniso avrebbe
trascorso la fanciullezza tra le ninfe, ma anche la capitale dell’impero
partico, attualmente in Turkmenistan, e una città della Caria (in Asia Minore).
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Dioniso danzante. |
Testimonianze
dello Śivaismo anteriore all’arrivo dei nomadi Ari (II millennio a.C.) sono
rimaste per via indiretta, in traduzioni o adattamenti sanscriti. Ai tre Veda
originari, fu aggiunto l’Atharvaveda, raccolta
di riti, formule e cerimonie prearie. Le fonti principali sullo Śivaismo, però,
sono i Puraṇa (libri storici), gli Āgama (tradizioni) e i Tantra (riti iniziatici e magici). A
questi, si aggiungano il Sāṁkhya (Cosmologia)
e i testi sullo Yoga, tecnica
d’origine śivaita e prearia.
Il
conflitto fra Śivaismo e Vedismo è incarnato da una storia contenuta nel Bhāgavata Puraṇa (IV, cap. 2-7) e che
somiglia alla vicenda delle Baccanti euripidee:
il sacrificio di Dakṣa. Questi è un
sovrano vedico che organizza un grande sacrificio in onore di tutti gli dèi,
escludendone però Śiva, che considera impuro. Nonostante questo, gli ha
concesso la mano della propria figlia Satī (= Fedeltà), per motivi politici (=
accettazione del substrato religioso più antico da parte dei conquistatori
Ari). Śiva punirà l’insulto col sangue.
Le
accuse reciproche fra il dio e il sovrano sono significative. Il rappresentante
del Vedismo disprezza Śiva, perché disgustato dalla sua vicinanza agli ambiti
della morte, della follia, della corporeità. Distaccarsi dal culto di questo
dio, però, significa morte: ovvero, dimenticarsi della natura dell’anima per isterilirsi nel ritualismo e condannarsi
all’ignoranza del superbo.
Come
illustra Daniélou, Śiva è, di volta in volta, signore degli animali, dio nudo
(ossia, rappresentante della vera natura umana), colui che vaga nelle foreste
ed eccita gli istinti. Il suo simbolo principale è il Liṅga, il fallo eretto che genera l’estasi e la vita. Uno degli
aspetti principali di Śiva è l’Ardhanārīśvara,
l’ermafrodito: l’unità di maschile e femminile che è impulso creatore, ma
soprattutto totalità del reale. “La
divinità primordiale è essenzialmente bisessuale. La divisione del principio in
due poli opposti che fanno nascere il mondo è solo apparente” (p. 58).
Śiva
è anche dio degli umili e guaritore; il serpente cui è associato rappresenta la
sua capacità di usare i veleni con prudenza. Questo è anche il motivo per cui
il serpente, in Occidente, è tuttora simbolo della medicina. Il culto di detto
animale era presente anche a Creta, associato a quello del medico divino
Asclepio.
Come
sovrano dell’universo, Śiva governa le direzioni dello spazio. È il dio della
morte, necessaria al rinnovarsi della vita. Si veste di ceneri: quel che resta
di un mondo distrutto, specialmente nei roghi funebri. Cospargersi di ceneri è
(in India come altrove) segno del distacco da una vita precedente, da
un’illusione. I monaci śivaiti portano anche vesti color zafferano, segno di lutto in India e nel mondo celtico
(cfr. p. 68). Questa pratica è stata ripresa dai monaci buddhisti e una veste
color zafferano è attribuita anche a Dioniso. “Quando presso i cristiani il
nero divenne il colore del lutto, i sacerdoti vestirono di nero perché, dal
punto di vista del mondo, sono dei morti-vivi” (p. 69). A questo, Daniélou
ricollega anche l’abitudine preistorica di dipingere di ocra le ossa dei
sepolti.
Essendo
il dio del ciclo naturale, per manifestare il proprio aspetto vitale Śiva ha
bisogno di una Śakti, un’ “Energia”.
Essa è la divinità femminile che
permette al suo eros di dispiegarsi. I suoi aspetti, come quelli del dio, sono
molteplici. È Pārvāti, “signora della
montagna”, perché i monti collegano la terra al cielo. Se Śiva è “Kāla” (=
il tempo), lei è Kālī, potenza del
tempo e della morte. A lei bisogna chiedere misericordia, ovvero una dilazione.
Il suo aspetto benevolo è Gaurī, “la dea
bianca”, la Leucotea greca che proteggeva i naviganti. È anche Satī, la Fedeltà, come si è visto. È signora
degli animali, così come delle montagne, omologa alla principale divinità
cretese.
A
Śiva, è dedicato un culto a base di abbandono della propria posizione sociale,
vagabondaggio, danze estatiche e inni appassionati. I suoi praticanti sono
detti bhakta, o baccanti:
le loro pratiche sono analoghe a quelle del Dionisismo.
Il
dio e la dea hanno forme animali e vegetali. Abbiamo già menzionato il toro, animale veneratissimo anche dagli
antichi Cretesi: figlio della Terra, simboleggia il principio attivo produttore
di seme (cfr. pp. 101-102). Minosse, archetipico re di Creta, fu generato dalla
fanciulla Europa e da Zeus in forma di toro. Suo figlio fu il Minotauro,
identico all’immagine di Nandin ( = felice), il toro di Śiva (vedasi p. 103).
In tutto il Vicino Oriente antico e in Egitto, le corna erano simbolo di
potenza e regalità (pp. 104-105). La dea, la Pārvāti simile a Cibele, è invece
associata ai grandi felini: il leopardo,
il leone, la pantera. La loro pelle era indossata dalle menadi. Abbiamo già
parlato del serpente, simbolo di
conoscenze farmacologiche, nonché dei segreti della terra.
Anche
il Labirinto, dimora del Minotauro,
non è estraneo allo Śivaismo. Esso simboleggia la Kuṇḍalinī, “l’energia
avvolta a forma di spirale” che si trova nel “centro di base” all’origine della
colonna vertebrale. Risvegliarla è compito dello Yoga, inestricabilmente associato al culto di Śiva. L’eroe deve
“arrivare al centro del Labirinto” e “incontrare il dio taurino”, ovvero
applicarsi alle pratiche che svegliano la Kuṇḍalinī.
“La conquista, da parte dell’ ‘eroe’, del mondo spirituale e magico con
l’ausilio delle tecniche yoga è diventata la vittoria dell’eroe ariano
sull’antico dio dei Misteri” (p. 112). Daniélou ricorda anche la possibile
origine di “labirinto” dal greco labrys,
la sacra scure bipenne rappresentata ovunque, a Cnosso. Il tracciato della
doppia ascia rappresenta, infatti, una strada senza sbocco. Il suo simbolismo è
simile a quello della svastica,
purtroppo nota solo per altre ragioni. “D’altronde, labra significa caverna, labirion
una galleria da talpe” (ibid.).
Una possibile identificazione del Labirinto di Minosse, infatti, è la caverna di Gortina, ai piedi del
sunnominato Monte Ida. Le grotte sono sempre e ovunque le sedi privilegiate dei
culti misterici. Sono discese nel
cuore della natura, nel corpo della terra come in quello umano.
Come
abbiamo anticipato, oltre che animali, le manifestazioni del dio e della dea
sono vegetali. “Le piante sono in
contatto diretto, non intellettualizzato, con la vita che le circonda” (p.
115). Diverse di esse (alimentari e medicinali) vivono in simbiosi con l’uomo.
Sacri a Śiva sono diversi vegetali, ma soprattutto la Ficus religiosa: per
inciso, l’albero sotto il quale il Buddha avrebbe raggiunto l’illuminazione.
Una sopravvivenza di questi culti è forse visibile nel Calendimaggio
dell’Italia centrale. “Ad Atene i giovani e i monelli in varie occasioni
portavano in giro il maggio fatto di
rami di lauro e di olivo” (p. 116). Naturalmente, non bisogna dimenticare il
culto della vite e dell’edera in ambito dionisiaco.
Luoghi naturali sono ovviamente
quelli per il culto di Śiva e Dioniso. Abbiamo già menzionato la caverna e il
monte Nisa. Nisā significa “gioia” ed equivale al Paradiso terrestre del dio indiano (cfr. p. 121). Luogo
intrinsecamente sacro è anche il crocevia,
rappresentato dal simbolo pitagorico “Y”. Qui vaga Rudra, la forma primordiale
di Śiva, e qui gli Ateniesi antichi ponevano le erme, immagini cultuali di
Ermes. Qui risiedevano gli spiriti dei Celti. Il crocevia è simbolo del “centro di base” del corpo umano, in
cui si trova la Kuṇḍalinī.
Alla
luce di tutto questo, l’uomo - nello Śivaismo come nel Dionisismo - è chiamato
a “trovare il proprio posto nella
natura”, ovvero a risvegliare questa “energia avvoltolata” avvalendosi
della conoscenza della propria interiorità. Questo - come si è detto - è
compito delle tecniche di Yoga e di
quelle tantriche.
Essendo
lo Śivaismo fondato sulla conoscenza della struttura
dell’essere umano, il suo numero sacro è il 5. Esso “ha fondamentale importanza nel codice genetico d’ogni cosa
vivente. Perciò abbiamo cinque dita, cinque sensi, le foglie degli alberi hanno
cinque nervature” (p. 128). Śiva è rappresentato con cinque volti, ovvero i
cinque aspetti principali del mondo sensibile: 1) Īśāna, “il Signore”. Corrisponde all’etere, allo spazio in cui si
trasmette il suono; 2) Tatpuruṣa, “l’Essere identificabile”.
Corrisponde all’aria e al senso del tatto;
3) Aghora (“non terrifico”) o Agni
(“fuoco”). Corrisponde al fuoco, per l’appunto, e all’elemento maschile,
nonché alla vista; 4) Vāmadeva, “il dio della Sinistra”. Corrisponde
al femminile, all’acqua, al senso del gusto;
5) Sadyojāta (“Nato spontaneamente”),
l’unione dei due aspetti precedenti. La croce e i triangoli embricati del
“sigillo di Salomone” lo rappresentano graficamente. Corrisponde alla terra e
all’olfatto.
Il
pentagono è perciò simbolo di Śiva e
sacro fin dall’antichità, amato dalle organizzazioni iniziatiche, ma anche da
musicisti e architetti. “La mezzaluna, quale è raffigurata nell’Islam, è la
luna del quinto giorno che Śiva porta in fronte e che rappresenta la coppa di soma, l’elisir di vita” (p. 129).
Alla
conoscenza dell’essere umano quale è espressa nello Yoga si ricollega la
nozione dei chakra, i centri
energetici presenti nel nostro corpo. Quello principale - abbiamo visto - è
quello in cui risiede la Kuṇḍalinī. È
posto fra l’ano e l’inguine; è paragonabile a un organo femminile aperto “verso
ovest”, ovvero verso la parte posteriore (cfr. p. 131). La Kuṇḍalinī è “avvolta”, perché, “come un serpente, essa circonda il
punto di partenza delle tre arterie principali tenendosi in bocca la coda
proprio davanti all’apertura dell’arteria centrale” (ibid.).
L’opera
di Alain Daniélou sottolinea questo e molto altro. Soprattutto, mette in
guardia l’Occidente dalla perdita del
dionisiaco nella propria spiritualità: perdita che è generatrice di “Kali
Yuga”, di progressiva distruzione della natura e della vita. Dall’ambizione di
asservire l’universo alle leggi umane, nascono due errori egualmente diffusi:
1) la convinzione che la felicità dell’umanità venga dal moltiplicare a dismisura
norme scritte e congegni tecnologici; 2) la confusione fra convenzioni
consolidate e “legge naturale”. L’esperienza di Daniélou è un invito a guardare in faccia le basi della vita,
a dar loro spazio. È un invito a tornare alla vera religione, quel panteismo che è dignità dell’uomo come parte
integrante dell’universo, non come suo preteso signore.
Alain
Daniélou, Śiva e Dioniso. La religione
della natura e dell’eros, Roma
1980, Astrolabio-Ubaldini Editore. [Shiva
e Dionysos, Paris 1979, Librairie Arthème. Tr. it. di Augusto Menzio].
Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (12 gennaio 2017).
Ho letto con interesse il tuo articolo. Vorrei chiederti se potessi fornirmi qualche elemento che prova il fatto che in realtà Dioniso dopo essere stato ucciso in Grecia poi si è risorto in India come Siva. grazie
RispondiEliminaUcciso in Grecia e risorto in India come Shiva? Non direi che le cose sono andare così... Ma mi permetto di consigliare quanto racconta Apollodoro nella "Biblioteca", per quanto riguarda le peregrinazioni di Dioniso dall'India.
Eliminanon è esistito alcun dioniso
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