Parte II: Il
cielo in fiamme
6.
Margherita
scelse uno degli esili tavolini, nella sala concerti dello Spaziomusica. I convenuti – creature simili a Diana, con
finto cuoio, jeans, catene e borchie quali seconda pelle – si travasavano dal
bancone del bar alle sedie, con bicchieri e boccali. I ragazzi avevano chiome
vigorose e lunghe barbe, studiatamente incolte. Alcuni erano in piedi, in prima
linea davanti alla scena. Solo che i “Pains of
Odin”
non erano ancora entrati.
Margherita non sapeva perché non fosse
anche lei là, vicino al focolaio della serata. Dopotutto, lei era la ragazza
della cantante. Ne avrebbe avuto diritto anche più degli altri. Eppure, si
trovava bene sullo sfondo, nel buio, mimetizzata fra le luci dei faretti. Perché?
Qualcuno le sfiorò il fianco,
passando fra lei e la fila degli appendiabiti. Si voltò e sussultò.
Quella
che le passava accanto era una sorta di processione. Otto figure in cotte di
maglia imitate da tessuti, con pesanti cinture che stringevano i fianchi,
gambali e calzari. Il capofila era anche coronato da un manto, chiuso sul petto
da una fibbia tonda. Riconobbe Diana, ma con sbalordimento. Il suo volto era
una maschera marmorea di cerone, con rivoli purpurei che lo attraversavano e
labbra nere.
Tacque il chiacchierio e serpeggiò
l’eccitazione, quando i “Pains of Odin” guadagnarono la scena e misero mano
agli strumenti. Gli occhi colorati dei faretti fecero risaltare il profilo
squisito e glaciale di Edoardo, il cipiglio di Luca, i ricci bruni di Gennaro – malamente castigati dalla calotta appuntita
di un elmo in plastica.
Lo spettro androgino che li guidava
si accostò al microfono: «Buona serata a tutti e grazie di essere venuti! Ci
hanno detto che qualcuno di voi è arrivato anche da fuori Pavia… decisamente,
siamo senza parole. Tocca a noi non farvi pentire. Perciò, cominceremo subito
alla grande, con Death of Denethor».
La chitarra elettrica di Edoardo le
rispose, rinforzata dai tocchi di Giorgio sulla batteria. Il piffero, la
fisarmonica e la cornamusa si aggiunsero, come ingredienti in un incantesimo.
Gli strumenti confluirono in un tutto che si levava e si attorcigliava, come
una fiamma o un lamento. La voce piena e cupa di Diana scandiva un monito,
mentre i ringhi di Edoardo le rispondevano, maestosi e disperati. Il duetto
salì ed esplose in un unico urlo, mentre le ultime note di cornamusa si
disperdevano come faville sulla cenere. Margherita si ritrovò ansante, coperta
di sudore freddo.
A Death of Denethor, seguirono
Liutprandus e Il vampiro di piazza
Cavagneria. La ragazza lo ignorava ancora, ma il resto del pubblico sapeva
che quei testi non esistevano nel repertorio di alcun altro gruppo. Erano
creazioni di Diana.
I “Pains of Odin” si fermarono un
poco, per riprendere fiato e dare riposo
al batticuore del pubblico. La cantante sorrise fra sé. Era quello che amava, nei loro concerti:
l’estasi gratuita, libera da qualunque divismo. Probabilmente, quasi nessuno
ricordava a memoria il suo nome o quello dei compagni; né i “Pains” si erano
mai preoccupati di far circolare poster con le loro facce o qualcosa del
genere. Perché ai fan non importava.
Era quello il bello. Music for
Music’s sake.
Si spostò dalla
fronte un ciuffo di capelli appiccicati al cerone e riguadagnò il microfono.
«Ora, un inedito assoluto, l’ultimo testo che abbiamo composto: per voi… Sky on Fire!»
Un rabbioso accordo di chitarra
accese la scintilla. Margherita tese il collo verso la scena. La voce di Diana
sembrava torcersi in una passione rattenuta e bruciante, sospesa come un
respiro:
…Let me sink in your holy womb,
You living moon
On a wise tomb;
Your spring is blessed
When my soul’s distressed,
But you set my sky on fire…
Il
volto spettrale della cantante era ancora più delirante, nel trasporto di quelle
parole. I suoi occhi circondati da rivoli sanguigni saettarono sul ribollire
umano della sala. Margherita trasalì, quando quelle pupille colpirono le sue.
[Continua]
Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (23 gennaio 2017).
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