“Sono
storie, sono favole…” Quante volte l’abbiamo sentito dire, per denotare
l’inconsistenza, l’infantilismo e la falsità di un discorso? Ebbene, le fiabe
non sono né “storie”, né “favole”. Se n’è occupato Silvano Petrosino, docente
di Teorie della Comunicazione e Antropologia religiosa e media all’Università
Cattolica di Milano. Fra le sue opere, si conta: Le fiabe non raccontano
favole. Credere nell’esperienza (Genova 2017, il melangolo). I contenuti del
saggio sono stati esposti al Teatro Civico “M. Bortolozzi” di Manerbio, il 20
settembre 2018: uno dei ricchi antipasti alla Notte delle Fiabe. Le parole del
professore sono state accompagnate da intermezzi, eseguiti al pianoforte da
Iacopo Petrosino. La serata era stata organizzata dall’associazione “Famiglie
nella Scuola”, col patrocinio del Comune e l’appoggio della Biblioteca Civica.
Gustave Doré: Cappuccetto Rosso a letto con il lupo |
Le fiabe sono tradizioni antiche,
miranti a trasmettere l’esperienza umana: non la vita, fatta di eventi successivi,
ma il timore, la brama, la speranza, la maturazione, la fede… La loro funzione
è parlare alle pulsioni più profonde: per farlo, debbono rifiutarsi di mentire
sulle paure e i desideri dell’essere umano.
Uno
dei più grandi temi toccati dalle fiabe è la “doppia nascita”: si viene al
mondo senza volerlo, ma solo le scelte personali possono farci sviluppare
appieno ciò che siamo. Ciò è stato mostrato tramite l’analisi di Cappuccetto
Rosso, il personaggio a cui la Stagione e la Notte delle Fiabe 2018 sono state
dedicate. Le più note versioni scritte del racconto sono quelle di Charles
Perrault (1697) e dei fratelli Grimm (1857). Nella fiaba, compaiono tre fasi
della vita: l’infanzia (Cappuccetto Rosso), la maturità (la mamma) e la
vecchiaia (la nonna). La protagonista si avventura nel mondo esterno al nido:
ergo, sta crescendo. Ne è la riprova la sua celebre cappa rossa: colore della
passione, del sangue e del mestruo. Nel paniere, porta cibo: qualcosa di materiale
di cui godere coi sensi... Il consiglio materno è sempre quello: «Non lasciare mai
il sentiero!» Ma, sul
sentiero, c’è il lupo, il seduttore (quante ragazzine provano attrazione per il
tipo pericoloso e tenebroso?). “Seduttore”, per Petrosino, è colui che promette
godimento, ma non sa “fecondare”, ossia lasciare un beneficio duraturo. Il lupo
propone a Cappuccetto di uscire dal famoso sentiero per raccogliere fiori, cosa
che le dà piacere: talmente tanto piacere che la bambina insegna al predatore
come rintracciarla. Ottenuto lo scopo, il lupo seduttore si dedica alla nonna.
Petrosino la descrive come un fallimento umano: invecchiata senza crescere, al
punto da farsi ancora ingannare. Quando Cappuccetto entra in casa, si accorge
della stranezza: quell’amorevole nonnina rivela dettagli minacciosi. È nei
“margini”, nei comportamenti non ufficiali, che si rivela la vera personalità
di qualcuno. L’aspetto più pericoloso della nonna-lupo è la bocca: serve per
divorare (con le parole) chi sta intorno a noi. La proposta della belva non
lascia dubbi sul significato della fiaba: «Vieni a letto con me!» La versione di
Perrault si ferma alla tragedia, dando una visione pessimistica e distruttiva
del maschile. Quella dei fratelli Grimm introduce la redenzione: il cacciatore.
Il lupo non viene realmente ucciso: la sua pancia aperta viene riempita di
sassi e il predatore così imbottito è gettato in un lago, un “sacco amniotico”
da cui risorge per rimettere alla prova Cappuccetto. Ma, stavolta, sia lei che
la nonna sanno riconoscere il male. Il quale non è mai definitivamente
eliminato, ma certamente può essere tenuto lontano dalla propria vita.
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