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Un'altra alchimia

Siamo abituati a considerare l’alchimia una “pre-chimica”, un passo che ha preceduto la conquista della scienza matura. Le ricerche di Mircea Eliade, storico delle religioni e mitologo, mostrano ben altro. Se è vero che la chimica ha messo a frutto una certa empiria metallurgica e realizzato un “uomo-creatore” sognato dagli alchimisti, è vero anche che la ricerca di questi ultimi era di natura completamente diversa. Negli studi di Eliade, l’alchimista è un ricercatore spirituale che mira a trovare una vita purificata, non più soggetta alla morte.
           
Mircea Eliade (Bucarest 1907 - Chicago 1986) era allievo di C. G. Jung. Nel 1945, si trasferì a Parigi e, là, insegnò all’École Pratique des Hautes Études. Dal 1957 fino alla propria morte, fu docente all’Università di Chicago. Qui, considereremo due suoi saggi, pubblicati in Italia nel volume “Il mito dell’alchimia seguito da L’alchimia asiatica” (Torino 2001 e 2014, Bollati Boringhieri. Traduzione e postfazione di Guido Brivio). 
            Il primo scritto uscì, originariamente, come “The Myth of Alchemy”, in «Parabola», 3, 3, 1978, pp. 7-23, poi in “Mircea Eliade”, «Cahiers de l’Herne», 33, 1978, pp. 157-67, nella traduzione francese di Ilena Tacu (“Le mythe de l’alchimie”).
            L’intento dell’autore, come si accennava pocanzi, è quello di “ristabilire il senso e i fini originari dell’alchimia” (p. 9), secondo le acquisizioni della storiografia contemporanea. “È indubbio che gli alchimisti contribuirono di fatto al progresso delle scienze naturali, ma ciò accadde indirettamente - e solo come una conseguenza del loro interesse per le sostanze minerali e la materia vivente […] E tuttavia il loro interesse per la «sperimentazione» non si limitava all’ambito propriamente naturale. […] gli esperimenti che gli alchimisti conducevano sulle sostanze minerali o vegetali avrebbero avuto un fine ben più ambizioso: modificare la natura del loro stesso essere.” (pp. 9-10). Per l’appunto, Eliade sottolinea il rapporto che l’alchimia, in tutte le culture in cui si è sviluppata (cinese, indiana, egizia, islamica, cristiana, ebraica), ha mantenuto con una tradizione esoterica o mistica. Sottolinea, di conseguenza, anche l’importanza del segreto in cui viene trasmessa. Questo portò allo sviluppo di una ricca mitologia sulla “rivelazione” di verità dalla fonte storica ormai ignota.
            L’esigenza del riserbo - spiega Eliade - è legata alla natura iniziatica del sapere alchemico: esso viene trasmesso solo a chi è disposto a trasformare radicalmente la propria condizione umana. Un linguaggio segreto è poi l’unico che possa esprimere il nuovo modo di essere dell’iniziato. Un’esibizione delle sue esperienze straordinarie, del resto, turberebbe troppo chi non fosse in grado di comprenderle. 
Tavola dal manoscritto Zoroaster
(XVII sec.)
            Questo “inizio di una nuova vita” è ciò che starebbe dietro i fini delle tradizionali ricerche alchemiche (salute, longevità, trasmutazione dei metalli “vili” in oro, Elixir di lunga vita). Esso è adombrato anche in numerosi miti su sorgenti, piante e altre fonti di immortalità e/o rigenerazione. Il “soma” vedico - per esempio - è il succo di una pianta dai modesti effetti stupefacenti, impiegato come bevanda sacra. Più noti sono l’ambrosia, cibo degli dèi greci, e il calderone celtico che restituisce corpi resuscitati. Questo senza contare l’erba dell’Epopea di Gilgamesh, o tutte le piante e fonti miracolose delle fiabe.
            A proposito della “rinascita” dell’iniziato, Eliade cita casi di “regressus ad uterum”, cioè rituali in cui viene riprodotta la condizione prenatale. In India, il rito detto “dīkṣā” prevede la permanenza dell’individuo in una capanna chiusa, come nel grembo materno. L’uscita è una “nascita nel mondo degli dèi” (cfr. p. 18). Caraka (I-II sec. d.C. circa), “il più grande esperto di medicina indiana” (p. 18), consigliava una terapia analoga per ringiovanire. Il Taoismo, invece, conosce la pratica della “respirazione embrionale”, in cui l’adepto cerca di imitare la respirazione a circuito chiuso propria del feto (cfr. p. 20). I minatori e i metallurghi antichi guardavano ai minerali come a embrioni che crescevano nel ventre della Madre Terra (cfr. p. 21). Il fuoco, durante la forgiatura, non farebbe che renderli adulti. La trasformazione in oro sarebbe stata lo stadio ultimo di questa maturazione dei metalli e avrebbe richiesto migliaia d’anni nel grembo della Terra. “Una simile credenza […] si è conservata nell’Europa occidentale fino alla rivoluzione industriale” (p. 21). Questo status, probabilmente, era riconosciuto all’oro dalla sua immunità alla ruggine e al deterioramento. “«L’oro, è l’immortalità» ripetono i ‘Brāhmaṇa’, testi di esegesi rituale successivi ai ‘Veda’ redatti a partire dall’VIII secolo a.C. Dunque, una volta che si è riusciti a ottenere l’Elixir capace di trasformare i metalli in oro alchemico, si è raggiunta l’immortalità; la trasmutazione dei metalli equivale a una sorta di crescita miracolosa.” (pp. 23-24). Questa “medicina” detta Elixir è anche più nota come Pietra Filosofale. Il suo potere non sarebbe altro che quello di modificare i tempi dei processi naturali, accelerandoli (per far maturare) o facendoli tornare indietro (per ringiovanire).
            L’alchimia araba e quella europea dovettero molto al neoplatonismo e all’ermetismo rinascimentali. L’aristotelismo perse favore a vantaggio, appunto, del neoplatonismo, che prevedeva entità spirituali con funzioni d’intermediarie fra uomo, cosmo ed Essere Supremo. Prese vigore anche una lettura cristologica: “così come Cristo aveva riscattato l’uomo attraverso la sua morte e risurrezione, l’ ‘opus alchymicum’ avrebbe assicurato la redenzione della natura” (p. 28). Questo tipo di sapere si sposava bene con l’ansia di rinnovamento universale che animava l’Europa almeno dai tempi di Gioacchino da Fiore (Celico 1145 circa - San Giovanni in Fiore 1202). In vista di una riforma dei saperi, fu pubblicato un volumetto anonimo detto “Fama fraternitatis” (1614), che ispirò il movimento di pensiero dei Rosacroce. Fra i loro principali sostenitori, vi fu Robert Fludd (Bearsted, Kent, 1574 - Londra 1637), membro del Royal College of Physicians. Medico, sosteneva che la conoscenza suprema della filosofia naturale fosse inaccessibile a chi non fosse formato nelle scienze occulte. Riteneva infatti che la conoscenza del microcosmo (il corpo umano) rivelasse la struttura dell’universo e guidasse verso il Creatore; i due tipi di sapere sarebbero dunque stati speculari.
            L’approfondimento delle ricette alchemiche portò a esperimenti in laboratori attrezzati; l’interscambio fra studiosi creò accademie e società scientifiche. Protagonisti della rivoluzione scientifica, come Robert Boyle (Lismore Castle 1627 - Londra 1691) e Isaac Newton (Woolsthorpe-by-Colsterworth, 1642 - Londra, 1727), coltivavano conoscenze alchemiche (cfr. pp. 34 ss.).
            Tirando le conclusioni, Eliade afferma che il mito dell’alchimia è “uno dei rari miti ottimisti” (p. 38). Esso si basa sulla fiducia nell’uomo-creatore, capace di conferire la perfezione all’esistenza umana stessa. Le scienze sperimentali e il Positivismo ottocentesco altro non sarebbero che le versioni secolarizzate di questo mito. Il desiderio umano di precipitare il tempo, attraverso la lavorazione dei materiali in fabbrica e in laboratorio, ha tuttavia portato il lavoro umano - secondo Eliade - a un ritmo insostenibile, “senza però poter più disporre di quella dimensione sacra che rendeva sopportabile il lavoro in altre società.” (p. 40).
            Il secondo saggio del volume, come dicevamo, è “L’alchimia asiatica”. Esso comparve come “Alchimia asiatică”, per i tipi di Cultura Poporului, Bucureşti 1935. Come annuncia il titolo, questo testo guarda alla cultura cinese e a quella indiana.
In Cina, il primo testo alchemico propriamente detto si trova citato nello “Hanshu”, testo databile al I sec. d.C., ma che potrebbe essere di epoca più antica (cfr. p. 46). In esso, il mago Li Zhaojun raccomanda all’imperatore Wu (141-87 a.C. ca.) della dinastia Han di recare sacrifici al forno, per poter evocare esseri soprannaturali e saper mutare la polvere di cinabro in oro giallo. Le stoviglie prodotte con quest’ultimo sarebbero in grado di prolungare la sua vita, fino a metterlo in contatto con gli immortali. La residenza di questi ultimi sarebbe l’isola Penglai, celebre nelle leggende cinesi; qui, vi sarebbe un palazzo in oro e giada (entrambi materiali connessi all’immortalità, come vedremo anche più avanti) e la sua fauna sarebbe interamente di colore bianco, tinta della “non-dualità”. (Cfr. p. 46 e n. 3 a p. 46). Il tema dell’oro alchemico come Elixir di lunga vita è l’asse portante dell’alchimia cinese. Non si trattava, dunque, di cercare un metallo prezioso, ma di un materiale di qualità trascendente, capace di spiritualizzare il corpo (cfr. p. 49).
            Il Taoismo cinese prevede la presenza in tutte le sostanze dell’universo di due princìpi, lo “yin” (femminile, passivo, oscuro) e lo “yang” (maschile, attivo, luminoso). “Tutto ciò che è partecipa, in maggiore o minor misura, di questi elementi fondamentali. […] La trasmutazione dei metalli […] si compie eliminando lo ‘yin’ e accrescendo lo ‘yang’ ” (pp. 49-50). Ricchi di “yang” sarebbero l’oro e la giada, pertanto considerati in grado di assicurare longevità e salute. L’uomo che avesse assimilato sostanze ricche di “yang” si sarebbe anche armonizzato con il cosmo. “L’alchimia non può essere capita se non si tiene conto di questa funzione […] in virtù della quale l’individuo si sforza instancabilmente di raggiungere la comunione con i principi e l’armonia con le leggi, di modo che la vita scorra in lui senza ostacoli.” (p. 51). Piene di “yang” sono la tartaruga e la gru, dal cui carapace e dalle cui uova (rispettivamente) si distillano bevande. Fra le piante, si possono citare il pino e il pesco.
            Dopo l’oro e la giada, sono interessanti le perle. Capaci di preservare il corpo dalla decomposizione, compaiono spesso in rapporto col dragone (cfr. p. 55). La perla è “immagine del principio femminile, simboleggia la vita e la fecondità […] Perle e tartarughe, nella credenza degli antichi cinesi, crescono e diminuiscono in armonia con il ciclo della luna.” (p. 55).
            Un altro protagonista dell’alchimia è il cinabro. “Il suo colore rosso era ricco di proprietà vitali, essendo simbolo del sangue […] Ma non era soltanto il suo colore a fare del cinabro un veicolo per l’immortalità; era importante anche il fatto che, messo sul fuoco […] producesse mercurio, cioè […] «l’anima di tutti i metalli». […]” (pp. 59-60).
            La lavorazione di questi ultimi aveva parimenti un senso sacrale. Nei forni delle fonderie, avveniva un misterioso atto di creazione; il forno aveva, perciò, qualcosa di simile a un’intelligenza divina (cfr. p. 61).
            La natura mistica dell’alchimia cinese è sancita anche dai digiuni, dai sacrifici e dalle purificazioni che dovevano precederne la pratica (cfr. p. 66). Anche la respirazione andava curata al massimo, cosa che accomunava lo yoga al Taoismo.
           
Nel X sec., gli alchimisti taoisti accantonarono la fabbricazione dell’oro per concentrarsi proprio sulle possibilità spirituali delle loro operazioni: ovvero, sull’aspirazione all’autonomia dell’anima e all’immortalità del corpo. Tale concezione è illustrata nel “Trattato del dragone e della tigre” di Su Dongpo, redatto verso il 1100: “Il dragone è il mercurio. Esso è lo sperma e il sangue […] La tigre è il piombo. Essa è il soffio vitale e la forza del corpo.” (p. 73).
            Come mostra Eliade, la trasformazione dell’alchimia in una pratica ascetica e meditativa raggiunge il culmine con il taoismo d’ispirazione buddhista, nel XIII sec., quando entrano in voga le pratiche zen. (Cfr. p. 73).
            In India, invece, l’autore segnala scuole di matrice tantrica, appartenenti dunque a quella corrente che sintetizzò tutte le tecniche spirituali indiane (cfr. pp. 78-79). Esse, secondo diverse testimonianze di viaggiatori, avrebbero conosciuto la ricetta per una bevanda che assicurava lunga vita. Lo studioso islamico Al Bīrūnī (973-1048) riferì di una disciplina specificamente indiana, detta “rasāyana”, composta a partire da “rasa” (= “oro”). (Cfr. pp. 81-82). Essa sarebbe stata in grado di guarire malati incurabili e ripristinare la giovinezza.
Il fine ultimo di queste pratiche, così come di tutta la filosofia e la mistica indiana, sarebbe conseguire la “liberazione”, lo stato dell’anima illuminata senza brame o avversioni. (Cfr. p. 85). L’integrità e la salute fisiche sarebbero indispensabili allo scopo. “…le operazioni alchemiche che vanno sotto il nome di ‘rasāyana’ […] mirano, da un lato, alla purificazione dell’anima, dall’altro alla transustanziazione del corpo. In entrambi i casi si tratta di pratiche di ascendenza tantrica…” (p. 85). Questa tradizione tantrica conta ottantaquattro “siddha” (termine sanscrito traducibile come “maghi”); le biografie leggendarie considerano alcuni di loro in grado di fabbricare l’oro e l’Elixir di lunga vita (cfr. pp. 86-87). Nelle leggende e nel folclore indiano, poi, compaiono spesso allusioni al potere degli asceti di mutare il bronzo o altri metalli in oro per mezzo di un decotto vegetale (cfr. p. 90).
            Anche in India, nelle pratiche alchemiche è centrale il mercurio. Nel tantrismo, esso è il “principio generatore” (p. 94). Esso va “fissato” o “messo a morte”, ovvero calcinato (cfr. p. 95). In questo modo, “il principio dinamico, mobile, viene trasformato in principio immutabile, divino. La mutevolezza costitutiva dell’esperienza psichica, mentale, viene «ridotta», soppressa; l’anima così liberata risulta perfettamente stabile, proprio come il mercurio «fissato». L’operazione alchemica possiede dunque anche una valenza di redenzione” (pp. 95-96).
            Secondo il “Rasaratnākāra” (anteriore al III sec. d.C.), un Elixir a base di mercurio avrebbe trasmutato il corpo umano in corpo divino (cfr. p. 97). Tali segreti sarebbero stati rivelati all’autore, Nāgārjuna, dopo dodici anni di ascesi e per la sua devozione a Yakṣinī, “signora della pianta della ‘Ficus religiosa’ ” (p. 97). Oltre che alle pratiche mistiche, l’alchimia indiana si sarebbe dunque ricollegata anche ai culti della vegetazione. I monaci buddhisti di scuola tantrica fecero poi penetrare precocemente l’alchimia nel Tibet. Così come in Cina, in India sono attribuite dai Veda proprietà sacre all’oro e alle perle.

            Le due brevi opere di Mircea Eliade mostrano dunque che, nonostante i rapporti fra le due discipline, la chimica e l’alchimia non sono l’una la figlia dell’altra. Fin dall’inizio, esse sono parallele e separate, in quanto categorie mentali profondamente diverse (cfr. p. 101). “L’alchimia ha in sé una certa funzione spirituale: conseguire l’immortalità - o la liberazione, è lo stesso […] La chimica […] è una tecnica che ha come fine la conoscenza e il dominio del mondo naturale, fisiochimico” (p. 101).

Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (22 settembre 2016).

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