Sabine Heinz, nata a Berlino
nel 1963, è collaboratrice scientifica presso l’Università Humboldt. Là, guida
la commissione di esperti in ambito celtologico. La posizione della Heinz è
dovuta al suo studio di magistero in inglese e celtologia, nonché al successivo
studio di ricerca a Berlino, grazie a una borsa presso l’Università di Friburgo
i. Br. Sabine ha anche soggiornato più volte in Galles, per ragioni di
formazione. Nonostante questo curriculum di tutto rispetto, però, deve lottare
per ottenere il mantenimento della sua materia, che viene ancora insegnata a
Berlino come “Vollkeltologie” (celtologia generale): facoltà nella quale, dal
1996, nessuno può più iscriversi. Un vero peccato, perché l’interesse non
manca. Lo dimostra anche il manuale curato proprio da Sabine Heinz: “Symbole der Kelten”, Darmstadt 1997,
Schirner Verlag (in Italia: “I simboli
dei Celti”, Vicenza 2000, Edizioni Il Punto d’Incontro; trad. di Gabriella
Balzaro).
Il
testo affronta un ambito culturale assai sfaccettato e che copre diversi
secoli. L’autrice è consapevole di non poter esaurire l’argomento; ma si augura
comunque di essere riuscita “a gettare un sottile raggio di luce sulla magica e
dinamica visione del mondo” (p. 11) che in detti simboli viene codificata.
Più
d’uno risale alla realtà dell’800 a.C. Questo
periodo è detto “cultura di Hallstatt”,
dalla località austriaca dove sono stati fatti ritrovamenti essenziali. Una
fonte importantissima per conoscere la religiosità dei Celti è invece il bacino di Gundestrup, calderone
argenteo ritrovato nello Jütland (Danimarca), recante figure di divinità, scene
rituali, animali fantastici (200 a.C. - 300 d.C., o 150 - 1 a.C. circa).
Come
spiega la Heinz a p. 12 dell’edizione italiana, i Celti erano probabilmente
originari delle aree sul Reno superiore e sull’alto Danubio. La loro
estensione, a partire dal V sec. a.C., raggiunse il suo apice nel IV e nel III
sec. a.C. Di fatto, le tribù celtiche arrivarono a occupare buona parte
dell’attuale Europa, incluse le isole britanniche, l’Irlanda e persino parte
dell’Asia Minore (dove furono chiamati "Galati" dai Romani).
Anche
i Celti cristianizzati hanno lasciato testimonianza dei propri simboli. Se ne
ritrovano nell’irlandese “Book of Kells”,
manoscritto dei Vangeli riccamente decorato (VI-VII sec. circa). La sua
iconografia unisce Cristianesimo e religione precedente, oltre a influssi
bizantini e italici. Le sue miniature presentano tutti gli elementi principali
della simbologia celtica, quali “spirali ramificate e intrecciate, ornamenti a
reticolo con angoli a 45° e torques […] così come teste, zampe di animali e
altre parti del corpo” (p. 13).
Come
spiega la Heinz, “nell’arte celtica la simbologia è più importante della
rappresentazione di azioni […] I Celti sembrano prediligere l’illimitato
dell’immaginazione al sistema ordinato della realtà” (pp. 13-14).
Oggigiorno,
per ovvie ragioni storiche, prevale un’interpretazione cristiana di questo
patrimonio di segni, che rappresentano ormai solo frammenti del mondo
antecedente. Oltre a ciò, bisogna ricordare che un simbolo - per propria natura
- reca un significato sfumato e molteplice. Il lavoro della Heinz mostra i
sommi capi del lavoro d’interpretazione, a uso di un pubblico ampio.
Ne
“I simboli dei Celti”, non bisogna stupirsi di trovare molte immagini
d’animali. “Gli animali hanno qualità e capacità che un tempo erano estranee
agli uomini […] ma erano per loro ugualmente desiderabili” (p. 17). Sono molto
rappresentati i serpenti, spesso
attorcigliati fra loro. La loro capacità di cambiar pelle ne fa simboli di
rinascita; la loro forma (simile al pene e al cordone ombelicale) li collega
alla fecondità. Il loro veleno ha il valore ambiguo che aveva anche presso i
Greci: quello di liquido letale o di medicina. La forma del loro corpo ne fa
lacci, legami fra acqua, cielo e terra. La presenza di vermicelli nell’acqua li
rende, appunto, collegati al culto della medesima; altri miti fanno del
serpente un protettore e un guardiano, soprattutto all’ingresso dell’Oltretomba
(forse, perché vive nelle buche della terra?). Parente stretto del serpente è
il drago, che - com’esso - è
custode; ma rappresenta anche la forza nel combattimento.
L’uso
simbolico del serpente è particolarmente interessante nel caso dell’avo indiviso, ovvero l’umanità originaria, non ancora scissa
negli aspetti maschili e femminili. Il suo inguine è costituito da un
rettile che nasce da un uovo. “L’atto
della creazione viene in questo caso raffigurato mediante il serpente che
fuoriesce dall’uovo. Il serpente non possiede gambe e, di conseguenza, è visto
come pre-antropico. Il serpente esce dall’uovo (simbolo della morte) e dà un
morso alle mammelle (simbolo della vita)” (pp. 25-26).
Il
cervo è invece una divinità, adorata
come “Cernunnos”. “Il ritmo della crescita delle sue corna corrisponde alla
semina e al raccolto del grano; il grano, invece, è la dimostrazione della vita
dopo la morte” (p. 47). Come mostra anche il logo di un famoso liquore, il
cervo fu cristianizzato nella leggenda di Sant’Eustachio: come racconta Jacopo
da Varazze (“Legenda aurea”, anni ’50-’60 del XIII sec.), la sua conversione a
Cristo sarebbe stata determinata dall’apparizione di un cervo con una croce fra
le corna. In questo modo, l’antico senso della resurrezione come ciclo della
natura avrebbe assunto il significato escatologico proprio del Cristianesimo.
Il nome stesso di “Eustachio”, in greco, significa “colui che dà buone spighe”.
Come
il cervo, alla foresta misteriosa è legato il cinghiale. “La sua naturale aggressività lo fa diventare un simbolo
bellico; la sua ira ha effetto distruttivo […] I cinghiali venivano portati
dalle truppe gallesi davanti a sé […] e, di conseguenza, potrebbero aver voluto
significare la dignità regale/lo status di capo oppure la sovranità di una
tribù, e naturalmente anche la ricchezza. […] Il cinghiale veniva messo in
rapporto con il dio Esus, il dio della foresta […] Simboleggia una forma
sviluppata di fecondità […] Spesso il cinghiale viene raffigurato insieme al
cervo. Entrambi simboleggiano le metamorfosi e le trasmigrazioni. Entrambi
erano animali tra i più cacciati” (p. 63). Simile al cinghiale è il maiale, “simbolo dell’ospitalità e
della gozzoviglia” (ibid.), dato che era pietanza da banchetto. “Viene
mangiato, per rinascere nuovamente e per venir mangiato un’altra volta. Viene
usato come nutrimento dei morti oppure per essere rapiti verso il mondo
dell’oltretomba. Il maiale è garante di una vita sempre giovane, sana e senza
preoccupazioni. I maiali immortali possono portare salvezza, ma anche sfortuna.
I signori dell’aldilà vengono spesso accompagnati da cinghiali. Spesso i maiali
vengono messi nelle tombe, anche separatamente, e sacrificati” (pp. 63-64).
Ovvio
simbolo di crescita e fecondità è il coniglio,
che “in Grecia è l’animale sacrificale di Afrodite” (p. 79).
Nel
bestiario celtico, sono presenti molti uccelli. Ne citeremo due: la civetta e l’aquila.
La
prima, per via dei grandi occhi, è simbolo della Grande Madre, “colei che
protegge”. La seconda è ammirata per la sua apertura alare e l’altezza del suo
volo; è “la meta di metamorfosi con le quali, per esempio, si può continuare a
vivere nell’aldilà. Le vengono attribuite anche saggezza e capacità di
chiaroveggenza, cosa che le dà il diritto alla dignità regale” (p. 103). In una
fiaba gallese riportata dalla Heinz, l’unica sposa degna dell’aquila risulta
essere proprio la civetta.
Il culto dell’acqua e delle fonti salutari fa sì che, nei simboli
celtici, compaiano molti pesci,
portatori di virtù benefiche e persino di anime umane. Migrando per la
deposizione delle uova, essi appaiono come tramiti fra mondi diversi.
Fra le piante, molto rappresentata è
la quercia, fondamentale fornitrice
di materiale per carri e navi. “Le sue ghiande sono anche d’inverno cibo per
gli animali e per gli esseri umani e sono note anche come mezzi che inducono
alterazioni nello stato di coscienza, se assunti crudi. L’impiego di mezzi del
genere è diffuso in tutto il mondo, sia per migrare tra i mondi e/o per
ottenere ulteriore conoscenza…” (p. 146). Non stupisce che gli addetti al sacro
fossero detti druidi, dalla “parola
gallese […] ‘derwydd’, cioè uomo della quercia” (ibid.). Legato a questa pianta
è il vischio che vi cresce. Esso
aveva proprietà medicinali come panacea, ma soprattutto come narcotico. Era
poco diffuso, quindi prezioso, e venivano raccolte con la falce solo nel sesto
giorno della luna. Per questo, la sua stessa raccolta era una cerimonia. Allora
- spiega la Heinz - le piante di vischio venivano poste intorno alle corna o ad
altre parti del corpo dei tori, come fossero torques. “Ai giorni nostri, il
vischio è segno del destino. Qualunque cosa si pensi in sua presenza, essa
accade” (p. 149).
Più legato all’aldilà è il melo; il suo frutto compare nella
letteratura celtica anche come simbolo dell’amore che nutre, o come prova di
un’impresa compiuta (in modo del tutto simile a quanto avviene nel mito di
Eracle e delle Esperidi).
Per passare agli strumenti musicali,
l’arpa “viene anche messa in
rapporto con la triscele, cioè con il culto solare” [per via della forma
triangolare] (p. 161). “…era vista come strumento animato con almeno tre
melodie: ridere, sospirare, dormire” (ibid.). La sua vicinanza alle emozioni
umane ne fa un simbolo dell’anima immortale.
Come abbiamo accennato prima,
parlando del bacino di Gundestrup, nella cultura celtica è centrale il paiolo. Strumento fondamentale per la
vita associata (a causa delle sue funzioni culinarie), è dunque segno di
abbondanza e contenitore di tesori. Da esso, vengono sia la vita che la morte -
probabilmente, perché dà vita col nutrimento, restituendo trasformati gli
ingredienti morti. Può perciò ringiovanire, o creare terribili “morti viventi”
(come nel IV ramo del “Mabinogion”). È urna per i defunti, contenitore
sacrificale: insomma, una porta fra l’aldiquà e l’aldilà. “I paioli legano tra
loro gli elementi conservatori della vita, fuoco e acqua, ed è possibile che
essi […] vengano considerati una forma divina che proviene direttamente dal
ventre della dea madre” (p. 167).
Più volte, abbiamo già citato i torques, collari semicircolari composti
da fili di metallo intrecciati, con pomelli o anelli sulle estremità. Indicano
potere e prestigio, dunque anche la capacità di proteggere.
Non possiamo non menzionare la
cosiddetta croce, o meglio ruota celtica:
raffigurazione della compagine del mondo, dei quattro punti cardinali o anche
dell’albero dell’universo. La forma di ruota rimanda, ancora una volta, al
Sole, nonché alla protezione - come mostra la pianta rotonda di castelli e
case.
Una delle fàlere celtiche del I sec. a.C. ritrovate a Manerbio (BS) nel 1928. Essa reca il simbolo della testa (ai bordi) e quello della triscele (al centro). |
Per quanto riguarda i numeri,
citeremo la frequenza del tre, che
abbiamo già visto in rapporto alla forma dell’arpa. Il triangolo “indica i tre
lati della vita: la nascita-la vita-la morte. Si tratta di un numero basilare,
al quale si può ridurre l’intero essere: l’inizio-il punto mediano-la fine; il
passato-il presente-il futuro…” (p. 229). La raffigurazione del tre ricorre
spesso, però, come triade (simbolo a
tre lobi). Essa si è conservata anche nel trifoglio
di San Patrizio. “Le più importanti saggezze della vita, le personalità,
gli animali, e altre cose ricche di significato per la società di allora, sono
ripartite in sistemi triangolari. […] Il numero tre, oppure la triade, si è
conservato fino ai giorni nostri in tutto il mondo come rafforzamento” (p.
233). Versione particolare ne è la triscele,
ovvero la ruota solare a tre pale che indica il movimento degli astri. “…questo
simbolo sta a significare la spirale
della vita, che abbraccia la terra” (p. 237).
Sheila-na-Gig,
la figura femminile che mostra la propria fertilità, sarebbe poi un’antenata
delle tante sirene a due code che si ritrovano nei capitelli delle chiese
romaniche, secondo Ivan Illich.
Altro elemento molto raffigurato è
la testa umana, che contiene
l’essenza della vita, ed era perciò molto ambita come trofeo in battaglia.
Come già accennato, la riflessione
mitologica dei Celti comprendeva anche il destino dell’anima, destinata a
passare da un mondo all’altro attraverso la morte. Questo “mondo altro” riceve diversi nomi;
famoso è divenuto “Avalon”, cioè
“isola della mela” (p. 279). La credenza nell’immortalità, come detto per il
culto del cervo e per il maiale, è legata all’osservazione dei cicli della
natura. Non stupisce, perciò che anche il calendario
celtico sia circolare. Esso è
diviso in quattro spicchi, rappresentanti le festività principali che scandivano
le stagioni. Citiamo soprattutto Samhain,
divenuta popolare come “Halloween”. “Come a Roma, in questi giorni era aperta
l’entrata verso il mondo terreno e il mondo dell’aldilà, cosicché si poteva
arrivare a una comprensione con gli abitanti di quei mondi. Naturalmente […]
non tutto ciò che proveniva dal mondo dell’aldilà era desiderato, motivo per
cui si prendevano delle precauzioni contro le calamità. […] si attizzavano dei
fuochi, presso i quali si accendeva un mucchio di legna per il proprio
focolare. […] La festa di Samhain segnava l’inizio dell’inverno e il cambio
dell’annata […] La notte precedente al 1° novembre […] era una delle tre notti
degli spiriti […] Venivano fatte delle profezie […] con sassi oppure noci, e, a
seconda di come si queste si comportavano fra le fiamme del fuoco, il nuovo
anno sarebbe stato buono oppure cattivo, il desiderio espresso verbalmente
veniva esaudito e l’evento sperato si verificava oppure no. Soprattutto in
questa notte gli spiriti aiutavano molto a prendere la propria decisione…” (p.
289).
La complessità della simbologia
celtica è, senz’altro, inesauribile. Ma tutti i significati di un segno gemmano
da un solo nocciolo: le basi biologiche
della vita umana e il valore che ogni elemento della natura ha nei confronti di
essa.
Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (17 settembre 2016).
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