Dalla Lettera a Romain Rolland (gennaio 1921):
“…È molto bello ‘non aver bisogno di sperare per
intraprendere, né di riuscire per perseverare’, ma io ho fatto tutto quel che
ho potuto, durante venticinque anni di fede sincera nell’arte, nell’amicizia,
in un futuro migliore. Mi son privato di pane non già per comprare un libro, ma
per poterlo leggere e sognare per il suo fascino. Bambino e domestico, mi son
fatto battere tutti i giorni per il crimine d’aver letto sottraendo tempo al mio
sonno, dopo diciotto ore di fatica. Operaio, mi son fatto mettere alla porta
per non essermi potuto separare un mattino da una lettura più bella della mia
vita, più necessaria del mio pane, oppure per aver espresso la mia ribellione
all’ordine stabilito. […]
La primavera del 1907 arrivai ad Alessandria
d’Egitto, giungendo da Napoli. Ero povero e mal vestito, ma felice come un
fringuello. La sera, nell’osteria di un connazionale, soffoco la mia fame con
un pezzo di pane, un the ed un po’ di formaggio e, pagato questo pasto, non mi
restava altro in tasca che dodici piastre (1, 50 franchi). Al mio fianco, un
povero diavolo mi guardava ed aveva l’acquolina in bocca. Capii che aveva fame.
Me lo disse lui stesso:
-Mangerò anch’io, stasera, se tu vuoi comprarmi questo
libro; oggi non ho mangiato.
Aveva un libro sottobraccio. Era Resurrezione di Tolstòj. Glielo compro per le otto piastre che
domandava, mi metto a leggere e dimentico tutto. Dimentico che mi serviva un
letto per la notte, che costava un franco, e che non avevo altro che cinquanta
centesimi. […] Le strade erano deserte. Ma bisognava camminare tutto il tempo,
per non essere scorti dalle ronde notturne ed arrestati per vagabondaggio.
Ebbene, bruciavo dalla voglia di continuare la mia lettura, interrotta alle
pagine in cui Tolstòj descrive magistralmente la fisionomia del processo di
Katuša ed il travaglio dei rimorsi che si produceva nell’animo di Nekhludov.
Così, mi fermavo per leggere una pagina sotto la debole luce di ogni lampione
che incontravo […] Ma ecco che verso le quattro del mattino cominciò a cadere
una pioggia fine e ininterrotta. […] Arrivato il giorno, la pioggia cessò ed il
sole brillò con tutta la propria generosità, ma io ero inzuppato fino al
midollo.
[…] Giunto su un braccio del ricco delta del Nilo, mi allontanai dalla
strada e mi nascosi dietro una lunga siepe di canne da zucchero. Là, mi
spogliai in fretta, distesi i miei panni sull’erba e, nudo come il nostro
progenitore Adamo, mi misi a finire il mio romanzo. […] La mia povera pelle fu
bruciata […] Avevo appena finito il libro e, in una voluttuosa collera, lo
presi fra le mie mani, come si prende la testolina d’una cara creatura, immersi
il mio sguardo nello splendore della sua bellezza e, col fuoco nel cuore e…
nella schiena, gli gridai:
-Bambino adorabile, vedi il male che mi fai? Non deluderai
le mie speranze?”
PANAIT ISTRATI
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