Qualcuno si domanda cosa io trovi nei film sui vampiri. Io
rispondo: un linguaggio duttile ed efficace per parlare di aspetti
inconfessabili dell’essere umano. Nel caso di Countess Dracula (La morte va a braccetto con le vergini,
1971), l’aspetto esaminato è la ricerca della felicità. Essa –inutile dirlo-
è una tematica frequentatissima da cinema e letteratura. Raramente, però, il
suo aspetto sinistro emerge come da questo film.
Esso è la
versione romanzata della vita della contessa Erzsébet Báthory (1560 – 1614),
accusata d’aver assassinato centinaia di ragazze per ringiovanire grazie al
loro sangue. Che ciò fosse malattia mentale o calunnia, la figura della
contessa è diventata topica nella letteratura sui vampiri.
Nella
pellicola, compare ormai anziana e vedova di recente. A confronto con lei è
posta la memoria del defunto marito, circondata da un’aura di venerabilità e
munificenza. Tanto più per questo spicca l’arida crudeltà della protagonista.
Il decesso del marito sembra averla gettata in uno stato di morte affettiva. È questa
a far maturare il suo animo di assassina, prima ancora degli sviluppi
successivi.
La svolta
arriva insieme a un giovane, benvoluto dal defunto conte. Con lui torna giovane
anche il cuore della vedova. Per poter godere del ritorno alla vita, però, è
necessaria una lunga catena di sacrifici: quelli delle vergini il cui sangue
rigenera la bellezza sfiorita della contessa. A ciò si aggiunge una lunga
impostura: l’innamorato è convinto d’amare la figlia della vedova. Questa ambiguità è la stessa del rapporto, che
è allo stesso tempo quello fra due amanti e quello fra madre e figlio. In ciò
sembra consistere il segreto per la fatalità dell’amore: un ritorno al
complesso edipico.
Davanti all’insostenibile
intrico della situazione, la protagonista risponde con una frase disarmante: «Sono felice».
L’inganno e
gli omicidi proseguono grazie a due aiutanti. Uno è l’uomo che ha amato la
contessa per vent’anni, attendendo la sua vedovanza. Lui rappresenta un’alternativa
alla felicità crudele e precaria della contessa. Tuttavia, si sottomette al suo
volere, ammaliato dal corpo rifiorito di lei. Quando comprenderà che la sua felicità gli è stata sottratta senza
speranza, lui diverrà la chiave di volta del dramma.
Più
inquietante ancora, però, è la figura della nutrice. Mite e devota, assiste
impassibile la contessa nei ripetuti omicidi. La sua spiegazione riecheggia
quella della protagonista: «Volevo
vederla felice». Una sorta di egoismo paradossale implicito nella dedizione
materna. La sua collaborazione con l’assassina si spezza solo davanti a un
affetto più viscerale.
Il film
sfiora anche la tematica del rapporto feudale. A render possibile tutto quel
versamento di sangue sono la necessaria sottomissione dei contadini alla
signora che li protegge e la loro condizione di sua “proprietà”.
La ricerca
della felicità, in un contesto di potere e di deserto affettivo, non è dunque
altro che una forza divorante –e, alla fine, divora se stessa. Come il fuoco,
che, bruciando ogni cosa senza fermarsi, finisce per estinguersi.
Non ho mai visto questo film ma da grande appassionata di cinema e soprattutto di quei personaggi che rendono il passato un po più interessante e colorato (in questo caso rosso sangue), lo guarderò di sicuro.
RispondiEliminaIn bocca al lupo (o alla contessa?), dunque! ;)
Eliminalessi un libro, tempo fa (libro che ora fa parte della mia enorme biblioteca). Si intitola "la contessa nera" di Rebecca Johns....credo sia abbastanza veritiero; insomma, non è un romanzo ma una ricostruzione storica abbastanza attendibile.
RispondiEliminaSei sempre molto brava; ciao Erica
Caro Michele, molte grazie del consiglio bibliografico... e del complimento. :) Sei sempre troppo gentile.... ;)
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