Tanto per non distaccarci troppo dal tema, dopo Countess Dracula, arriva su questo blog il Conte Dracula propriamente detto. Anzi, il Conte Dracula per eccellenza: quello
impersonato da Bela Lugosi. Se si esclude Christopher Lee, nessun interprete
del vampiro cinematografico è rimasto così bene impresso nell’immaginario comune.
Menzionare “Dracula” significa ancora oggi rivedere quella figura ampollosa,
coi capelli impomatati, il mantello nero e le sopracciglia incisive. Contraddicendo
la famosa canzone dei Bauhaus, Bela
Lugosi is not dead.
Il Dracula del 1931 è stato diretto da Tod Browning: lo stesso che dedicò un film ai Freaks (1932), i “fenomeni da baraccone”
sempre innocenti nella propria mostruosità. La vicinanza cronologica fra le due
pellicole e l’identità del regista farebbero pensare a un’ispirazione comune. In
effetti, anche Dracula è un freak: un
animale da teatro, plateale nella gestualità, che terrorizza con l’arte di
entrare e uscire di scena. Un teatro, appunto, è il luogo in cui incontra le
vittime predilette per la prima volta. Il suo sempiterno frac gli disegna
indosso ruolo e vocazione. Sempre dal teatro provengono la sceneggiatura e
l’attore protagonista. I mezzi del cinema, però, consentono di creare più
suggestivi giochi fotografici e incisive inquadrature. Efficace –per esempio-
il dettaglio degli occhi di Dracula, ritagliati dall’ombra da una strisciolina
di luce, a dipingere il loro potere ipnotico.
Guardando
questo film, vien da pensare che Browning avesse un modo eterodosso –e pur
tuttavia magistrale- di interpretare il genere horror. L’ambientazione è
raffinata e mondana fino alla leziosaggine. I personaggi sono tutti,
invariabilmente, eleganti e di belle maniere. Il vampiro, nella propria
ampollosità, è quasi una loro caricatura. Perfino Renfield, il folle divoratore
di insetti, non manca mai di impomatarsi i capelli e stirarsi la camicia. Il
sangue –leitmotiv d’ogni film sui
vampiri- è suggerito, mai ostentato. I morsi avvengono fuori scena. Lo spettatore
vede solo il volto di Dracula chinarsi verso di lui, in primissimo piano –come se,
in luogo di Lucy, ci fosse lui nel letto e a lui fosse diretto l’attacco. Lo spettatore, al contrario delle belle
vittime, è sveglio e cosciente –ma altrettanto inerme. È forse questo a
generare il brivido. A ciò, si aggiunga l’odore di decadenza, di polvere o di
ambulatorio medico che circonda il vampiro e/o coloro che hanno a che fare con
lui. L’accoglienza riservata all’avvocato Renfield nel celeberrimo castello è impeccabile
sotto il profilo mondano; ma tutto, intorno a lui, suggerisce morte e buio.
Morte e buio, peraltro, abitati da una vitalità interdetta al giorno e alla
grande città. Nel mondo di Dracula, l’urlo dei lupi può essere musica sublime. Le
ragnatele sono bensì segno d’abbandono, ma ospitano i ragni, gonfi di vita –come
imparerà Renfield, divenuto pazzo, o forse più veggente. Lo svelamento di presenze vive là dove regna la morte è l’esperienza
più raggelante che possa offrire il film. Ne è emblematica la scena in cui una
bara si apre lentamente, svelando una mano che striscia attraverso un pertugio
per guadagnare l’uscita. La mostruosità di Dracula e delle sue spose consiste
nel saper abitare i luoghi inospitali per l’uomo, nel saper abitare finanche la Morte. Sono fratelli
dei ragni, dei lupi, dei pipistrelli, dei topi. Sono ibridi fra uomo e animale.
La colonna sonora lo dice senza parole, accompagnando i titoli di testa con un
famosissimo leitmotiv tratto da Il lago dei cigni. Nella notte, l’animale
può rivelare il proprio volto umano –e viceversa. Perché l’incanto finisca, l’uomo
può solo uccidere una parte di sé. A dispetto del finale borghesemente
rassicurante, vien da chiedersi se ne valga davvero la pena.
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