Presentazione della mia tesi di
diploma IUSS in Scienze Umane.
Il presente lavoro si basa su un argomento trattato durante
il corso Libertà, determinismo,
responsabilità. Problemi del soggetto e dell’azione morale nel mondo antico, tenuto
dal prof. Mario Vegetti nel I semestre dell’A.A. 2011/2012. L’elaborato
riguarda le questioni toccate dall’Encomio
di Elena composto dal sofista Gorgia da Leontini (480 a.C.? – 380 a.C.?). Questo scritto si
configura come la difesa della sposa di Menelao, accusata d’aver causato la
guerra di Troia fuggendo con Paride.
L’Encomio di Elena è
collocabile poco dopo il 427 a.C.,
anno in cui Gorgia avrebbe raggiunto l’apice del successo. La sua professione
di sofista consisteva nel preparare i giovani di buona famiglia alla carriera
politica, insegnando loro l’arte retorica. Questa professione lo portò in Tessaglia
e ad Atene. Qui, nel 427 a.C.,
si recò come ambasciatore di Leontini per proporre un’alleanza in funzione
antisiracusana. Oltre all’abilità diplomatica, di Gorgia era celebre la
capacità d’improvvisare. Il καιρός, l’occasione da cogliere, era per l’appunto
uno dei pilastri tanto della sua tecnica retorica, quanto della sua etica.
L’Encomio di Elena è
una dimostrazione del talento e della competenza di Gorgia in campo oratorio.
La tematica scelta vantava una tradizione letteraria ricca e illustre, di cui
il presente lavoro offre una panoramica. Le vicende di Elena, figlia della
regina Leda e di Zeus, risalivano all’epica omerica. La figura della fatale
semidea ispirò anche poeti come Saffo e Alceo. Platone cita la Palinodia di Stesicoro: un poemetto che questi
avrebbe composto per placare le ire dei Dioscuri, che l’avrebbero accecato per
aver diffamato la loro sorella Elena. Nella Palinodia,
Stesicoro avrebbe sostenuto che la guerra di Troia sarebbe stata causata
non dalla sposa di Menelao, ma da un simulacro di lei. Ciò ispirerà le
riflessioni euripidee nella tragedia intitolata Elena, appunto. La
Lisistrata di Aristofane testimonia, invece, del
culto reso alla semidea dalle fanciulle spartane. Parimenti, l’idillio XVIII di
Teocrito celebra le nozze dell’eroina senza menzionare il suo adulterio con
Paride. Purtuttavia, nell’Atene di Gorgia, su Elena gravava una nomea
univocamente negativa. Ciò era legato all’interpretazione della sua figura nel
teatro tragico. Esso si focalizzava sulle azioni umane, viste come parzialmente
autonome dalla volontà divina. Anche la fuga di Elena a Troia perse la propria
aura di fatalità e di progetto divino, per venir deprecata come suo funesto
errore. Ciò avviene nell’Agamennone di
Eschilo e ancor più insistentemente nelle tragedie euripidee. A sostenere
l’innocenza di Elena è invece il dramma omonimo già menzionato, ispirato alla Palinodia di Stesicoro. Qui, Elena si
vede espropriata della propria identità a causa del simulacro che l’ha
sostituita. Ne risulta una critica alla “civiltà della vergogna”, che fonda i
propri giudizi di colpevolezza sulla base delle mere apparenze. Ne risulta
anche una riflessione sulle capacità conoscitive dell’uomo, condizionate dalla
limitatezza dei sensi e dell’intelletto. Questo è un tema caro anche a Gorgia,
che ne tratta diffusamente nell’Encomio
di Elena. Questo discorso trae il proprio titolo dalla conclusione, in cui
l’autore lo definisce, appunto, ἐγκώμιoν. Si tratterebbe della prima
testimonianza di questo temine come consapevole denominazione d’un genere
letterario. Il testo gorgiano presenta elementi tipici d’una performance orale: l’uso della prima
persona singolare, l’insistenza sulla correttezza della tesi sostenuta, la
presenza di domande retoriche, sofismi, atteggiamento polemico, consapevolezza
d’un pubblico vivo. Si tratterebbe dunque della messa per iscritto di un’ἐπιδεῖξις,
una dimostrazione d’abilità retorica da svolgersi davanti a un uditorio.
L’Encomio di Elena comincia con l’esposizione del concetto di κόσμος,
ovvero “armonia”, e con la declinazione del medesimo a seconda dei campi
d’applicazione: “Armonia per la città è il valore, per il corpo la bellezza,
per l’anima la sapienza, per l’azione la virtù, per il discorso la verità” (Hel. 1). Ciò dimostra come Gorgia non
intenda proporre alcun sistema di valori alternativo a quello tradizionale, ma
anche come egli ispiri la propria etica al καιρός, alla contingenza: quella che
conferisce, di volta in volta, un significato diverso alla parola κόσμος. La
casistica di declinazioni culmina con la menzione del λόγος, il “discorso”. Per
quest’ultimo, il κόσμος coinciderebbe con l’ἀλήθεια, ovvero la “verità”. La
menzione di quest’ultima può risultare sorprendente, in un’opera gorgiana. Il
sofista di Leontini, infatti, è noto per aver composto un trattato intitolato Sul non-essere o Sulla natura. In esso,
argomentava l’impossibilità –per l’uomo- di conoscere il reale o di comunicare
le proprie conoscenze. Ciò farebbe pensare a una rinuncia al conseguimento
dell’ἀλήθεια. In realtà, l’ἀλήθεια cara al sofista consiste nell’armonia
interna al discorso, nel suo rigore argomentativo e nella sua efficacia
persuasiva. Si può affermare che Gorgia sta attuando una sorta di
sperimentazione scientifica delle potenzialità dello strumento verbale. L’ἀλήθεια
consisterebbe anche nella corretta conoscenza dei moventi dell’azione umana.
Sono questi ultimi a essere presi in considerazione, nel trattare della
condotta di Elena. Secondo Gorgia, le possibili cause del suo adulterio sono: la Tύχη, ovvero la sorte; l’Ἀνάγκη,
ovvero la necessità ineluttabile; la volontà degli dei; la violenza; il λόγος,
la “parola” in grado di trascinare l’anima; l’ἔρως, il desiderio amoroso
suscitato dalla vista. Con questo elenco, il sofista ritiene d’aver esaurito la
casistica dei moventi delle azioni umane. Si può notare come nessuno di essi
abbia carattere razionale.
La Tύχη, l’Ἀνάγκη e la volontà
divina hanno in comune il fatto d’essere forze invincibili e insondabili per
l’uomo. Se Elena avesse agito sotto l’influsso di una di esse, sarebbe stata
scagionata perché naturalmente troppo debole per opporsi.
L’impiego della violenza da parte
di Paride, poi, l’avrebbe agevolmente assolta, in quanto vittima.
La trattazione più estesa è
riservata agli effetti del discorso sulla psiche umana. In questa parte dell’Encomio, compare la nota definizione del
λόγος come δυνάστης μέγας, “signore potente”. La parola, nella concezione
gorgiana della medesima, è quella retorica, in grado di persuadere facendo leva
su suggestioni ed emozioni. È anche la parola poetica, che non rappresenta la
realtà, bensì ne crea una. L’efficacia di siffatto λόγος –secondo Gorgia-
sarebbe tale da poter competere con le forze sovrumane di cui si è detto e con
la coercizione fisica. Sulla descrizione gorgiana del potere della parola
influisce la concezione magica dello strumento verbale. Questa sarebbe
l’eredità dell’insegnamento di Empedocle.
Gli effetti magici del discorso
consisterebbero in ψυχῆς ἁμαρτήματα (“errori dell’anima”) e δόξης ἁπατήματα
(“inganni dell’opinione”). Il termine ἁμαρτήματα indica gli umani errori di
calcolo. Per quanto riguarda il vocabolo ἁπατήματα, esso designa le illusioni,
le rappresentazioni artefatte di cose reali o la produzione illusoria di cose
inesistenti. Le emozioni suscitate dall’abilità artistica del retore –secondo
Gorgia- influirebbero anche sulle decisioni delle assemblee. Una simile
efficacia sarebbe data al discorso dal fatto che l’uomo è carente di memoria
del passato, conoscenza del presente e preveggenza del futuro. Solo un possesso
pieno di questi tre requisiti permetterebbe all’uomo di accedere a un livello
di conoscenza superiore a quello della δόξα, ovvero l’opinione.
Gli effetti del discorso sulla
psiche sono descritti da Gorgia in termini meccanicistici e materialistici.
L’azione delle parole sull’anima è accostata agli effetti dei farmaci
sull’organismo.
Materialistica e meccanicistica è
anche la concezione gorgiana dell’eros. Questo viene menzionato alla fine
dell’elenco di possibili cause del comportamento umano. Il desiderio amoroso
viene descritto dal sofista, come un effetto indotto sulla psiche dalla vista.
Così come i discorsi, le immagini sarebbero in grado di plasmare l’anima in
modo irresistibile. Parole e visioni scaccerebbero τὸ νόημα, ovvero ciò che il
νοῦς, il lucido intelletto, è in grado di cogliere. Questo è l’unico cenno di
Gorgia alla componente razionale dell’anima umana.
Per quanto riguarda l’eros, il
sofista ne prende in considerazione il suo tradizionale accostamento alle forze
divine. Egli, però, preferisce considerarlo quale malattia d’origine puramente
umana. Ciò rimanda a una celebre tragedia euripidea, l’Ippolito. Essa, per l’appunto, descrive gli effetti della malattia
d’amore su Fedra. Tanto Gorgia quanto Euripide risentono della temperie
culturale propria alla loro epoca, molto attenta al tema dell’ἀνάγκη φύσεως,
ovvero l’ineluttabilità delle leggi di natura. Di queste anche l’eros sarebbe
espressione. Il ruolo della psiche nei suoi confronti sarebbe puramente
passivo. Gorgia, però, riconosce all’uomo due facoltà: la γνώμη, ovvero il
senno che conduce alle deliberazioni, e la τέχνη, ovvero la capacità pratica.
Il suo determinismo etico, dunque, può esser letto in due modi: uno debole, per
il quale l’anima potrebbe essere rafforzata dall’educazione, e uno forte, che
farebbe dipendere anche l’educazione da fattori indipendenti dall’individuo.
In questo modo, l’Encomio sostiene che in Elena non
risiederebbe l’αἰτία del suo atto. Aἰτία è un vocabolo che può significare sia
“causa”, sia “responsabilità”, sia “imputabilità giuridica”. È l’ambiguità di
questo termine a guidare la linea difensiva di Gorgia: dimostrando che in Elena
non risiedono né la causa dell’adulterio, né la responsabilità morale del
medesimo, la solleverebbe anche da qualunque imputabilità.
In conclusione, il sofista
definisce il proprio Encomio παίγνιον,
ovvero “gioco”. In altre parole, la difesa di Elena sarebbe da considerarsi una
brillante prova d’abilità retorica e di capacità argomentative, oltre che di
spregiudicatezza intellettuale. La qualifica di παίγνιον rimanda anche a quella
piacevolezza che è per Gorgia una qualità irrinunciabile del discorso. Sarebbe
altresì un sunto della filosofia di vita del sofista, basata sul gusto per la
sfida intellettuale compiaciuta. La levità di stile e atteggiamento non
corrisponde però al peso effettivo dei contenuti. La questione della responsabilità
morale e dell’imputabilità degli atti umani impegnò infatti autori di grande
spessore.
Erodoto, per esempio, dà inizio
alle proprie Storie con una
riflessione sull’αἰτία delle guerre persiane. Egli legge queste ultime come
esito finale d’una catena di oltraggi scambiati tra la cosiddetta “Asia” e la
cosiddetta “Europa”. La causa e la responsabilità dei conflitti, dunque,
andrebbero attribuite alla prima parte che recò offesa all’altra. Una volta
innescata la catena di oltraggi, la secolare legge della vendetta non avrebbe
potuto che fare il proprio corso. Tuttavia, all’uomo resterebbe la facoltà di
non offendere affatto, oppure di esercitare la moderazione nel reagire alle
offese.
Il retore Antifonte di Ramnunte,
nella sua II Tetralogia, trattò
invece del contrasto fra leggi scritte e leggi religiose consuetudinarie in
materia di omicidio. Le prime distinguevano diversi gradi di volontarietà e
diverse circostanze possibili, adeguando la pena in base ad essi. Le norme
religiose, invece, prevedevano che chiunque avesse sparso sangue fosse espulso
dalla comunità, affinché non la contaminasse. Antifonte propone l’esempio d’un
lanciatore di giavellotto che avrebbe inavvertitamente ucciso un compagno,
durante l’allenamento. Secondo le norme scritte, il lanciatore sarebbe stato
assolto, perché l’omicidio sarebbe stato accidentale. Per dimostrare che
l’accusato sarebbe anche puro davanti agli dei, il retore procede in questo
modo: sostiene che l’errore che avrebbe causato l’uccisione sarebbe stato commesso
non dal lanciatore, ma al compagno, che si sarebbe spostato ponendosi sulla
traiettoria del giavellotto. La responsabilità, dunque, spetterebbe a chi ha
agito, commettendo un errore di calcolo. In questo modo, Antifonte
salvaguarderebbe l’efficacia delle norme sull’omicidio, impedendo però che
colpiscano anche gli innocenti. La medesima operazione è effettuata da Sofocle
nell’Edipo a Colono. Il protagonista,
macchiatosi di parricidio e incesto, viene respinto dalla comunità presso cui
cerca asilo. Egli si scagiona in questo modo: sostiene di non aver compiuto,
bensì subito i crimini che gli sono
imputati. Egli era infatti all’oscuro delle circostanze, cosa che non si può
dire di chi ha nociuto a lui. Edipo aggiunge d’essersi sempre comportato
proprio secondo la lex talionis invocata
dal coro e per il naturale istinto di autodifesa. Rispetto ad Antifonte,
Sofocle aggiunge un esplicito attacco a quelle norme di purezza religiosa che
impongono l’espulsione di un cittadino sostanzialmente innocente.
Euripide si concentra
maggiormente sulla figura di Elena. Nelle Troiane,
inserisce un vero e proprio processo a suo carico. La parte dell’accusa
spetta a Ecuba, che vanifica la difesa di stampo gorgiano. Accusare il volere
divino del fatale adulterio sarebbe inverosimile o addirittura empio. La causa
della fuga con Paride risiederebbe piuttosto nel νοῦς di Elena, ovvero nel suo
intelletto infiammato dai sensi. Non vi sarebbe stata violenza, perché ella
avrebbe assecondato il “rapitore”. Con opportunismo, Elena avrebbe sfruttato la
sorte, anziché esserne vittima. Pur avendo modo di tornare al primo marito, si
sarebbe rifiutata di farlo, per amore della vita lussuosa alla corte di Priamo.
Lo stesso Euripide, nel
summenzionato Ippolito, offre un
esempio di come si possa resistere all’imperio dell’eros grazie al proprio
senno. Fedra, infelicemente innamorata del figliastro, respinge i “bei
discorsi” di stampo sofistico, che vorrebbero indurla ad approvare azioni
socialmente condannate (l’adulterio e l’incesto).
Sia la vicenda di Elena che
quella di Fedra si concludono per in modo inquietante. Nelle Troiane, rimane il rischio che la
colpevole sfugga al castigo grazie al proprio fascino; nell’Ippolito, l’amore di Fedra per il
proprio onore la spinge verso soluzioni ancor più distruttive per la sua
famiglia.
Isocrate, allievo di Gorgia,
rivaleggia apertamente col maestro, componendo un altro Encomio di Elena. In esso, la fonte del giudizio positivo
sull’eroina è ravvisata nei personaggi mitologici illustri che l’hanno
prediletta fra tutte le donne, nei suoi natali semidivini, nel culto religioso
che le è tributato. Isocrate vuol dare alla propria arte retorica un valore
pedagogico e lo fa stabilendo un “principio d’autorità” fondato sulla communis opinio.
Le riflessioni etiche di Platone
raggiungono una maggiore complessità. Nel Protagora,
il personaggio del sofista eponimo sostiene di poter insegnare l’ἀρετή,
ovvero l’eccellenza prestazionale nei vari campi della vita cittadina. Ciò
offre a Socrate il pretesto per discorrere della capacità umana di divenire ἀγαθὸς,
ovvero valente. A render possibile ciò sarebbe la μάθησις, l’apprendimento.
L’uomo sarebbe ἀγαθὸς quando avesse l’istruzione necessaria per esserlo. Il
conseguimento dell’ἀρετή sarebbe desiderabile in se stesso; a impedirlo sarebbe
l’ignoranza. Questa posizione è nota come “intellettualismo socratico”.
L’uomo ignorante perseguirebbe
una felicità apparente e particolare, in luogo di quella reale e universale.
Per superare questo particolarismo, sarebbe necessario un confronto dialogico.
Una volta trovata una posizione valida per tutti gli interlocutori, sarebbe
stata raggiunta la μάθησις necessaria al miglioramento morale. In tutto ciò, la
parte di responsabilità del soggetto consiste nella disponibilità al dialogo.
Nelle opere successive al Protagora, la posizione di Platone si
complessifica ulteriormente. Nella Repubblica,
egli elabora un ritratto della ψυχή umana che illustra quali siano le
difficoltà nel conseguimento della perfezione morale. L’anima umana
comprenderebbe tre componenti. Al λογιστικόν, l’ “elemento razionale”,
spetterebbero le scelte etiche. L’ἐπιθυμητικόν, l’ “elemento desiderante”,
coinciderebbe invece con la sfera degli impulsi primari e fisiologici. Per
vincere questi ultimi, il λογιστικόν dovrebbe allearsi con lo θυμοειδές, l’
“elemento animoso”, che è la fonte del desiderio di affermarsi e mantenere una
posizione di prestigio. I contrasti fra le tre componenti dell’anima
determinano una situazione di perpetua lotta intrapsichica che rende difficoltoso,
per il λογιστικόν, governare la condotta umana. Esso, per rafforzarsi,
necessiterebbe d’una πολιτεία, ovvero un ordinamento che educhi i cittadini. Il
tardo Platone giunge così alla soluzione prospettata nelle Leggi: una legislazione onnipervasiva che guidi i cittadini fin
dall’infanzia. All’interno d’una tale società, le azioni del singolo
dipenderebbero non da lui, ma dall’educazione ricevuta. L’individuo vizioso non
sarebbe responsabile dei propri atti, ma andrebbe comunque rimosso dalla
società, in quanto pericoloso per i concittadini. Ciò significherebbe
rinunciare a qualunque distinzione fra reati volontari e involontari e tornare
alla soluzione deprecata da Sofocle nell’Edipo
a Colono.
Completamente diversa è la
risposta elaborata da Aristotele. Nell’Etica
Nicomachea, egli definisce un pubblico a cui destinare la propria
trattazione: ovvero, tutti coloro che sono competenti in materia di gestione
della cosa pubblica e sono in grado di conformare a una regola le proprie ὀρέξεις
–termine specificamente aristotelico traducibile come “appetizioni”. Vegetti
definisce il destinatario ideale dell’Etica
Nicomachea “gentleman ateniese
del IV secolo”.
Per quanto riguarda la dottrina
aristotelica dell’atto morale, essa è uno sforzo approfondito per distinguere
le differenti modalità dell’azione secondo le loro condizioni esterne.
Innanzitutto, un atto può essere ἑκούσιον
o ἀκούσιον, ovvero compiuto a proprio piacimento o contro la propria
inclinazione. Un gesto è ἑκούσιον in senso aristotelico quando il suo principio
risiede nel soggetto stesso, previa conoscenza delle circostanze. Sarebbe
invece ἀκούσιον se commesso per costrizione esterna o nell’ignoranza delle
circostanze. Per quanto riguarda un atto compiuto a causa di ricatti o
intimidazioni, Aristotele lascia la definizione in sospeso. Esso non è ἑκούσιον,
perché contrario all’inclinazione spontanea del soggetto. Non è neppure ἀκούσιον,
perché commesso nella piena coscienza delle circostanze e senza costrizione
fisica. Aristotele, tuttavia, ritiene scusabili le azioni compiute sotto la
minaccia di mali insopportabili per la natura umana. Egli contesta però chi
considera gli stimoli della bellezza e del piacere pari a vere e proprie
violenze: se essi esercitassero una coercizione sul soggetto morale, qualunque
atto sarebbe per lui frutto di costrizione. Infatti –afferma Aristotele- è in
vista del diletto e del bello che chiunque agisce. Egli aggiunge che chi è
vittima di autentica violenza prova dolore, mentre chi agisce sotto la spinta
del desiderio prova appagamento.
Un atto ἀκούσιον o ἑκούσιον può
essere compiuto anche da chi non è dotato di perfetta razionalità. Sono invece
privilegi del soggetto morale ideale la βούλησις e la προαίρεσις, ovvero la
“volizione” e la “deliberazione”. Contrariamente alla βούλησις, la προαίρεσις
si esercita solo su ciò che dipende direttamente dal soggetto morale. Non si
occupa di ciò che avviene per sorte o di necessità. Pertanto, il soggetto
morale, nel momento in cui si avvale della propria facoltà di deliberare, non
può attribuire la responsabilità della scelta a “cause di forza maggiore”. In
questo senso, per Aristotele, l’uomo è ἀρχὴ τῶν πράξεων, ovvero “principio
delle azioni”. Bisogna altresì specificare che la προαίρεσις stabilisce solo i mezzi per conseguire i fini di un atto.
Questi ultimi sono indicati dalla βούλησις. Essa ha per oggetto τἀγαθὸν (ciò
che è “buono”, conveniente) se il soggetto desiderante è l’uomo pienamente
virtuoso. In caso contrario, la βούλησις indica un fine sconveniente e
malvagio. Nella concezione di Aristotele, un soggetto persegue fini retti ed è
in grado di conseguirli se è stato ben guidato nei costumi. L’educazione,
pertanto, è centrale nell’etica aristotelica. Essa consentirebbe di abituarsi
ad esercitare le virtù così come avviene con le tecniche.
La riflessione aristotelica nell’Etica Nicomachea ha come effetto quello
di restringere il campo della scelta morale; ma, allo stesso tempo, individua
in questo campo un terreno di piena responsabilità del soggetto. A renderlo
capace di scelta ponderata è l’educazione, volta allo sviluppo e al
rafforzamento della razionalità. Così Aristotele mostra come sia possibile
rispondere alle esigenze di una società giuridicamente ordinata, arginando le
minacce della sorte imprevedibile, della necessità ineluttabile e
dell’irrazionalità connaturata all’uomo.
6 maggio 2014
Scuola Superiore IUSS di Pavia
Aula 1-17 di Palazzo del Broletto
Relatrice: prof.ssa Silvia Gastaldi
Correlatore: prof. Salvatore Veca
Il testo della tesi è consultabile e scaricabile da qui.
Innanzitutto un saluto, dato che sono approdata qui oggi per la prima volta! La trattazione di questo post è molto interessante e articolata, mi piace che emerga il rapporto fra un mito e le sue problematiche filosofiche, tanto più in relazione all'encomio gorgiano, sicuramente uno degli esempi più significativi della retorica greca. Se ne avrò il tempo, leggerò volentieri la trattazione estesa, intanto ti faccio i miei complimenti! Un saluto. Cristina
RispondiEliminaMolte grazie a te, Cristina! :) E complimenti per il bel nickname... :)
EliminaGrazie, una piccola "tara" da classicista! ;) A presto!
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