Lon Chaney jr. in L'uomo lupo (1941) |
L’uomo
lupo (The Wolf Man, 1941; regia di George
Waggner) è uno dei film prodotti dalla Universal Pictures che hanno segnato l’immaginario
horror internazionale. Al contrario di pellicole come Dracula o La Mummia, non si basa su opere letterarie o
figure già popolari in precedenza. Lo sceneggiatore Curt Siodmak si poté muovere così su un “terreno vergine” (o quasi).
Ma ebbe l’accortezza di costruire il suo Uomo Lupo servendosi di materiali che
avevano già un’alta carica simbolica. Ci sono gli zingari, emblemi della
“diversità” e della “magia”. C’è l’argento, metallo impiegato per fabbricare
crocifissi e altri oggetti benedetti. C’è la luna piena, ipnotica di per sé,
nonché uno dei più antichi mezzi per misurare il tempo della natura. C’è
l’aconito: in inglese wolfsbane,
“veleno di lupo”. (Compariva anche nel Dracula
del 1931, sempre prodotto dalla Universal, come arma contro i vampiri). C’è
il pentagramma… e, sulla
fortuna di questo simbolo, si potrebbero
scrivere pagine intere. Raffigurato sul pentacolo fin dal Medioevo, era impiegato come simbolo di protezione nei riti magici.
Ricorda un uomo vitruviano stilizzato, emblema della corrispondenza fra la struttura umana e quella del
macrocosmo naturale. Alain Daniélou, nel
suo saggio su Śiva e Dioniso (Roma 1980,
Astrolabio-Ubaldini Editore), riconduce il numero 5 proprio alla struttura dell’essere umano (cinque
sensi, cinque dita…) e del mondo sensibile: sacro, pertanto, nello Śivaismo,
fondato sulla conoscenza di essa. Siodmak rende il pentagramma il simbolo dell’Uomo
Lupo: contrassegno delle sue vittime, ma anche amuleto contro di lui. Insomma,
questo mostro nasce dalla natura profonda dell’Homo sapiens sapiens:
quello che può trasformarsi in belva “quando fiorisce l’aconito/e la luna
piena risplende la sera” e la cui unica salvezza è essere consapevole
della propria identità.
Proprio il rifiuto di tale consapevolezza conduce
lentamente alla rovina Lawrence “Larry” Talbot (Lon Chaney jr.), giovane
gentiluomo appena rientrato in famiglia dopo la morte del fratello. Siamo in
Galles, in una ricca e avita magione. Tutto ha perciò l’aspetto di un ritorno
alle radici, effettuato da un figlio tutt’altro che pacificato con il padre
(Claude Rains). I due non si vedono e non si parlano da anni; non c’è indizio
che abbiano realmente affrontato le ragioni del conflitto. Ma devono andare
d’accordo, ora. Gli interessi della famiglia e la trasmissione ereditaria
vengono prima di tutto.
Sir Talbot padre è un appassionato di astronomia:
ovvero, studia con rigore scientifico le leggi del macrocosmo, senza sapere che
esse coinvolgono anche la sua “piccola” vita - senza sapere che una luna piena
in cielo equivarrà a una terribile trasformazione nella sua casa. Più “terreno”,
fin da subito, è lo sguardo di Larry: il telescopio, nelle sue mani, punta
verso il villaggio nel quale deve imparare a vivere. La lente inquadra la
finestra della bella Gwen Conliffe (Evelyn Ankers), colta in un momento
di riservatezza nella propria camera. Non viene mostrato alcunché di
sconveniente: lei si sta solo togliendo gli orecchini (proprio a forma di lune,
toh…). Eppure, la situazione è palesemente voyeuristica. Se è stato il “caso” a
puntare il telescopio da quella parte, ciò non vale per gli occhi di Larry, che
indugiano su di lei. Lo strumento è tanto potente da far credere di poter
toccare le stelle… e fa lo stesso con le persone, come si premurerà di
sottolineare l’ “astronomo” galante. Prevedibilmente, non appena ne ha l’occasione,
l’uomo va a conoscere la ragazza, che lavora nel negozio d’antiquariato di
famiglia. Ancora uno scavo nel passato, dunque, che porta il protagonista a
scoprire “casualmente” un oggetto-chiave del suo destino: un bastone dal
pomo d’argento, foggiato a testa di lupo con un pentagramma. Il caso
(sembrerebbe dirci Siodmak) è una delle forme che prende il nostro inconscio
per parlarci.
I personaggi del film sembrerebbero avidi di leggere
quello che l’inconscio/desiderio/destino ha in serbo per loro, tramite gli
eventi apparentemente fortuiti. Tant’è che si recano a farsi leggere la mano
dallo zingaro Bela (Bela Lugosi… sì, lui). L’arte del gitano nasce da
una cultura per cui “come la pioggia affonda nella terra e i fiumi sfociano
nel mare, così le nostre lacrime scorrono per una fine predestinata.” Una
cultura, insomma, alla quale è ben presente quella corrispondenza fra
macrocosmo e microcosmo di cui parlavamo, adombrata nelle cinque punte del
pentagramma. Larry, fra l’altro, si era presentato a Gwen come sensitivo: uno
scherzo per spiegarle come avesse conosciuto i dettagli dei suoi orecchini. Ciò
introduce un’ambiguità fra la scienza dell’astronomo e l’arte dell’indovino,
che legge la mano (ancora una cinquina!). Queste due culture, apparentemente
lontanissime, debbono incontrarsi, nel comune desiderio di conoscenza:
conoscenza del cielo e conoscenza delle piccole cose umane, sempre più
incamminate verso una confluenza.
Del resto, Bela deve
conoscere per forza tale confluenza: è lui il primo uomo-lupo che incontriamo
nella storia. Il ciclo della luna e la fioritura dell’aconito si esprimono
anche in lui. La sua vittima designata (guarda caso) è una bella ragazza
impaziente di sposarsi: Jenny (Fay Helm), l’amica che Gwen ha condotto con sé.
Viste le palesi intenzioni di Larry, costei dovrebbe essere la reggimoccolo,
guardiana dell’amica già fidanzata. Eppure, Gwen la lascia da sola con Bela,
per allontanarsi nei boschi con il corteggiatore. Ancora una volta un’ambiguità,
la cifra del licantropo mutaforma. Nessuna delle due fanciulle fa alcunché di
male, in superficie. Eppure, Gwen si lascia condurre in un luogo isolato da un
giovane che la desidera, senza opporgli nemmeno un’obiezione; Jenny, sola con
un uomo, gli palesa la propria voglia di marito. In un certo senso, anche le
due donne debbono fare i conti con la “bestia” bramosa che vive dietro il loro
aspetto virtuoso. Ecco, dunque, che l’elemento bestiale coglie l’opportunità
per esplodere. Bela, trasformato, uccide Jenny. Larry cerca di salvarla e uccide
a propria volta l’aggressore, col pomo d’argento del bastone. Ma rimane
morsicato: l’incontro con la nostra parte violenta non lascia mai indenni. È lui
il nuovo Uomo Lupo, ora.
La sua (come informa Sir Talbot padre) potrebbe essere
anche considerata una forma di schizofrenia: la licantropia, appunto. (Vedasi anche qui.) Senza saperlo e senza volerlo, Larry è condannato a divenire un mostro, ogni
volta che le condizioni naturali lo determinano. Una tragedia del fato?
La vecchia zingara Maleva (Maria Ouspenskaya in L'uomo lupo, 1941) |
Non interamente. Entrare nel bosco per farsi predire la
fortuna da uno zingaro era stata una scelta cosciente dei protagonisti.
Così pure l’Uomo Lupo potrebbe scegliere di farsi curare, secondo le due vie
che gli sono offerte: quella del folklore, propostagli dalla madre del defunto Bela (Maria
Ouspenskaya), e quella della psichiatria, apertagli dal Dr. Lloyd (Warren
William). Ma Larry, uomo pragmatico e moderno, disprezza i rimedi della
zingara; quelli del dottore gli sono invece preclusi dal padre, che non vuol
far allontanare e internare l’unico erede rimastogli. La testardaggine umana è
più forte di qualunque destino. Cambiando un poco la formula dell’anziana
zingara, potremmo dire: le nostre lacrime scorrono verso il fine che le
nostre scelte hanno predestinato.
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