Qualcuno,
forse, ricorda ancora le mirabolanti e amarissime risate che mi sono fatta alle
spalle del film La Mummia (1999).
Boris Karloff in The Mummy (1932) Fonte: talkfilmsociety.com |
Tutt’altre
reazioni mi ha ispirato l’omonima pellicola del 1932 con Boris Karloff, prodotta sempre dalla Universal e diretta da Karl
Freund. Dimenticate quel tamarro improponibile che era Imhotep nel remake degli anni
’90 e trasformatelo in un magnetico gentiluomo egiziano. Cancellate quell’oca
giuliva di Evelyn e immaginate una squisita bellezza vintage, dagli occhi
grandi in un viso cereo: Helen, nonché reincarnazione della sacerdotessa
Ankh-es-en-amon. E pensate al trucco di Jack
Pierce, creatore di quei mostri della Universal divenuti archetipi dell’immaginario
horror. L’aspetto di Imhotep/mummia, divenuto poi Ardath Bey, vale da solo (a
mio parere) tutti gli esagerati effetti visivi del remake. Ammetto, poi, di
avere un debole per la fotografia in bianco e nero, coi suoi giochi di
ombreggiature che esaltano i volumi e la drammaticità. I primi fotogrammi, dopo
la comparsa del titolo, non sono immagini, ma scritte: antiche parole con cui
Iside avrebbe resuscitato Osiride, alias la proclamazione della morte come
porta della vita. La storia d’amore fra le due grandi divinità ricalca infatti
i cicli della vegetazione. È anche una storia tragica, in cui Iside riporta in
vita l’amato barbaramente assassinato… ma può riabbracciarlo solo per poco.
La vicenda comincia con una
spedizione archeologica in Egitto, organizzata dal British Museum. Al contrario
di quanto avviene nella versione anni ’90, l’ambiente accademico è dipinto in
modo da suggerire affidabilità e professionalità. L’archeologo, Joseph Whemple
(Arthur Byron), è un integerrimo uomo di scienza, dipinto in modo forse
idealistico, ma a livelli accettabili. È accompagnato dal dott. Müller (Edward
Van Sloan), un’autorità nel campo dell’occultismo. I due, insomma,
rappresentano prospettive diverse sull’antico Egitto: l’interesse
storico-archeologico e quello verso la sua religiosità, la sua magia e le celebri
maledizioni delle sue tombe. Il sodalizio è completato dall’assistente di
Whemple (Bramwell Fletcher): il pirla della situazione. Ma è l’unico ed ha l’indispensabile
funzione di “detonatore della trama”: è lui a leggere imprudentemente il papiro
con l’incantesimo sveglia-mummia. Dopodiché, pagando lo scotto della propria
scarsa professionalità, scomparirà debitamente.
Non scomparirà però Imhotep (Boris Karloff), se non
temporaneamente. Il suo dramma è stato già parzialmente raccontato dai toni
asciutti dell’analisi condotta sul suo corpo: viscere non rimosse e segni di
resistenza al bendaggio. Sepolto vivo, insomma. Per di più, i segni che
avrebbero dovuto proteggere la sua anima sono stati cancellati. Che avrà mai
fatto, per meritare una condanna tanto atroce quanto eterna? Quel pirla dell’assistente,
credendo di scherzare, trova la motivazione esatta: una donna, sacerdotessa di
Iside e figlia di un faraone.
Il quadro del dramma va
dettagliandosi a poco a poco, grazie a una sapiente suspense. Prima, compare il
misterioso Ardath Bey, che dà al nipote di Whemple (David Manners) le
indicazioni per rinvenire la tomba della principessa Ankh-es-en-Amon. Peccato
che (ovviamente!) ci sia un secondo fine… La mummia rediviva, che era un tempo
sacerdote, vuol ritentare ciò che non riuscì millenni prima: la resurrezione
della sua amata, grazie al famoso papiro. Quell’atto d’amore disperato gli era costato un sacrilegio (di una formula tanto
sacra non ci si poteva certo impadronire a man salva) e l’orrenda punizione
conseguente. Le cose vengono peggiorate dal fatto che l’anima di
Ankh-es-en-amon non abita più nel corpo di un tempo, ma in quello di una
ragazza vivissima: Helen, appunto. La nipote e paziente del dott. Müller.
Paziente per cosa? La sofferenza della giovane viene eloquentemente mostrata
dal primo atto che compie nel film: contempla malinconicamente le piramidi all’orizzonte,
il “vero Egitto” così diverso dall’ “orribile Cairo moderno”. Dietro di lei,
scorre la vita, nella forma di una festa. Da questa vita è attratta. Ma quella malinconia che si porta dentro rischia di crescere come un tumore… Rischia di esasperare
quella doppia identità che porta con
sé fin dalla nascita: il suo essere inglese come il padre ed egiziana come la
madre. Gli incanti di Imhotep risvegliano in lei un’altra “mummia”: la
personalità della sacerdotessa egizia, che vive dentro Helen e la trascina a
vivere in un perduto passato. Un malessere che, forse, alcune persone
riconosceranno come proprio - quelle che hanno sperimentato complessi d’inadeguatezza
ed escapismi in altre epoche. Ben lungi dall’essere un ingenuo fantasticare,
ciò può portare all’alienazione e a un incancellabile senso di soffocamento.
A Helen si pone, dunque,
una scelta drastica: lasciar vincere Ankh-es-en-Amon e divenire un cadavere
vivente come Imhotep; oppure, aggrapparsi al prepotente senso d’essere viva,
così ben personificato (nel film) dal simulacro di Iside - la dea madre, guaritrice e protettrice. In ogni caso,
nessun aiuto potrà venirle dall’esterno. L’amore
tossico dell’antico sacerdote la isola da tutti coloro che le vogliono
davvero bene, giungendo a farle credere che sono loro i suoi carcerieri. Helen
dovrà salvarsi da sola. O, meglio, grazie a una forza che si trova dentro di lei, come la personalità della
principessa morta. Guardare dentro di sé non serve solo a resuscitare fantasmi.
È anche un passo necessario per una dolorosa, ma salutifera consapevolezza.
Helen, alias Ankh-es-en amon (Zita Johann) Fonte: http://egypto-maniac.blogspot.com |
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