Una scena del film La mia Africa. |
Alla
Libera Università di Manerbio (LUM), prosegue l’ideale giro del mondo in 28
giorni. Dopo il Vicino Oriente (con i Templari) e l’Europa (col muro di Berlino), è arrivata l’Africa. E il dr. Enrico Danesi l’ha presentata
servendosi del cinema.
Pochi sanno che, dai Paesi africani,
proviene un’ottima produzione cinematografica: perlopiù, film a basso budget,
pensati per la visione privata, ma con contenuti di spessore: religiosi, o
legati alla diffusione dell’AIDS. Secondo uno studio dell’Istituto di
Statistica dell’UNESCO (2009), nel 2006, la Nigeria è divenuta il secondo Paese
al mondo per produzione di film, subito dopo l’India. Se, per quest’ultima, si
parla di “Bollywood”, per la Nigeria è proverbiale “Nollywood”.
Il 23 novembre 2017, però, al Teatro
Civico “M. Bortolozzi” non è stato proiettato un film africano. La scelta è
caduta su una pellicola famosa, che mostra lo sguardo di un’europea sul
Continente Nero: La mia Africa (USA, 1985; regia di Sydney Pollack). Esso è
tratto dal romanzo autobiografico della scrittrice danese Karen Blixen,
pubblicato nel 1937.
Nel film, la protagonista (Meryl
Streep) raggiunge in Kenya il barone von Blixen (Klaus Maria Brandauer), un
amico col quale ha concordato di sposarsi. Le scene scelte dal dr. Danesi
riguardavano il rapporto fra Karen, l’ambiente naturale e i nativi. Lei scopre
ben presto che la sua vita non sarà tanto facile. Il marito ha scelto di
coltivare caffè nei loro possedimenti: pianta che non può crescere
eccessivamente, in quei terreni. Sarebbe necessario irrigare; ma coloro che
dovrebbero deviare il corso di un fiume sono restii a farlo: quell’acqua deve
“raggiungere la propria casa”.
Dr. Enrico Danesi |
Né finisce qui il divario culturale
fra lei e i dipendenti della fattoria. Karen ha la sicurezza della dama europea
d’inizio Novecento, “portatrice di civiltà”. Sa di poter offrire medicinali
efficaci, cultura letteraria, possibilità di guadagno maggiore rispetto a
quelle cui i nativi Kikuyo si potrebbero sognare. Ma deve fare i conti con la
loro sensibilità. Il ragazzo zoppicante di cui lei si preoccupa deve “parlare
con la propria gamba”, per convincerla ad andare all’ospedale. (Il giovane
finirà per farsi curare e diverrà il cuoco della baronessa). La cultura del “dominio
della testa” si confronta così con quella del “dialogo con gli elementi
naturali” (esteriori o parte del proprio corpo). Avviene così un ponderato
“travaso” fra la signora danese e i Kikuyo: si scambiano conoscenze necessarie
alle rispettive esistenze.
Oltre agli umani, ci sono gli
animali. È una pessima idea passeggiare dimenticando il fucile sulla sella del
proprio cavallo; Karen lo capisce, trovandosi faccia a faccia con una leonessa.
E guai a scappare: ciò denuncerebbe alla predatrice che lei è buona da
mangiare. Un atteggiamento, peraltro, che non è diversissimo da quello delle
persone… Questo le viene insegnato dal nuovo amico Denys (Robert Redford). Da
lui, apprende la conoscenza della natura africana. Come Denys, essa può amare
ed essere amata, ma bisogna lasciare che viva la propria vita. Non è mai un
possesso. E la baronessa lo scoprirà a dure spese.
Con uno sguardo sullo sconfinato
paesaggio kenyota (simile allo “sguardo di Dio” che a Karen è stato regalato da
Denys), si conclude il film. Il romanzo, invece, terminava con l’allontanamento
- con l’addio definitivo all’Africa.
Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 127
(dicembre 2017), p. 18.
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