“Ella
[Nunziata] non credeva a una sola Madonna, ma a molte: la Madonna di Pompei, la
Vergine del Rosario, la Madonna del Carmine e non so quali altre; e le
riconosceva, dal costume, dal diadema e dalla posa, come fossero tante regine
diverse. Una, ricordo, era chiusa in rigide fasce d’oro, come le sacre mummie
dell’Egitto, e, al pari del suo bambino, fasciato anch’esso d’oro, recava in
testa un’enorme corona dalle molte punte. Un’altra, tutta ingioiellata, era
nera, come un’idolessa africana, e sorreggeva un figlio che pareva una
bambolina d’ebano, carico, lui pure, di pietre sfolgoranti. Un’altra invece non
aveva corona: era cinta solo di un alone immateriale, e, se si esclude
quest’unico segno del suo titolo, somigliava a una bella pastora fiorente; si
divertiva a giocare con un agnello, in compagnia del suo bambino tutto nudo; e
di sotto il semplice vestito le sporgeva il piedino, candido e grasso.
Un’altra stava seduta, in
atteggiamento di dama, su una bella sedia intagliata; e dondolava una culla
così sontuosa che nemmeno in casa d’un duca se ne vedrà mai una uguale!
Un’altra ancora, simile a una guerriera, indossava una specie d’armatura di
metalli preziosi, e brandiva una spada…
(Da quanto potei dedurre, credo di
capire che queste Vergini avevano indole diversa una dall’altra. Una era
piuttosto disumana, impassibile come le dee dell’antico Oriente: onorarla era
necessario, ma era meglio non rivolgersi a lei per ottenere le grazie. Un’altra
era una maga, e sapeva compiere ogni prodigio. Un’altra ancora, l’addolorata,
era la custode santa e tragica a cui si confidano le passioni, e i dolori. A tutte
piacevano le feste, le cerimonie, le genuflessioni e i baci; tutte amavano,
pure, di ricevere regali; e tutte avevano immenso potere; ma, a quel che
sembra, la più straordinaria, la più miracolosa, la più cortese, era la Madonna
di Piedigrotta.
Poi, al di là di tutte queste
Vergini e dei loro Bambini, e di tutti i Santi e le Sante e dello stesso Gesù,
c’era Dio. Dal tono con cui la mia matrigna lo nominava, si capiva che Dio, per
lei, non era un re, e nemmeno il Capo di tutto il Santo Esercito, e nemmeno il
padrone del Paradiso. Era molto di più: era un Nome, unico, solitario,
inaccessibile; non gli si chiedono grazie, neppure lo si adora; e, in fondo, il
compito di tutta l’immensa folla di Vergini e di Santi che accoglie le
preghiere, i voti e i baci, è questo: salvaguardare l’inaccessibile solitudine
di un Nome. Questo nome è la sola unicità che si contrappone alla molteplicità
terrestre e celeste. A lui non importano le celebrazioni, né i miracoli, né i
desiderî, né i dolori, e nemmeno la morte: a lui importa solo il bene e il
male.
Questa era la religione della mia
matrigna, o almeno così ho creduto di poterla ricostruire io, dal suo contegno
e dai suoi discorsi, quel giorno e in seguito, attraverso la nostra vita
comune. Si tratta, però, necessariamente, di una ricostruzione imperfetta,
anche perché la mia matrigna, nel discorrere con altri delle cose sante, era
sempre trattenuta da una specie di pudore. E seppure, in qualche grande
occasione, si effondeva con eloquenza sugli argomenti della sua fede, sempre
lasciava certi punti nel silenzio e nel mistero. Così, per esempio, ancora oggi
mi è difficile dire che idea ella avesse in particolare del Diavolo, o
addirittura se credesse alla sua esistenza).
Delle Vergini portate da Napoli, un
certo numero (almeno tre o quattro) ne furono appoggiate, in fila, contro la
specchiera del cassettone; ma ve n’erano ancora altrettante dentro la valigia,
per le quali la specchiera non aveva più posto. Esse furono collocate, ciascuna
con un bacio, sul tavolino da notte, e sul davanzale della finestra.
Dopo
i gioielli, questi quadretti della Vergine Maria erano senz’altro la più
lussuosa proprietà posseduta dalla sposa. Stampati a colori, a ori, a argenti,
incorniciati e sotto vetro, erano anche decorati da ornamenti diversi. Il
quadro della Madonna di Piedigrotta aveva intorno un addobbo di grosse
conchiglie, strisce di seta, penne di gallo e vetri colorati, che lo faceva
somigliare a un’insegna di trionfo barbarica.”
Da:
Elsa Morante, L’isola di Arturo, Torino
1995, Einaudi, pp. 93-94.
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