La divinazione è un fenomeno culturale controverso, che
non cessa di creare curiosità. Ad essa sono associati concetti vari, quali
quelli di “superstizione”, “arte”, “religione”, “tecnica”, “pratica”. Nella
nostra cultura, sembra essere relegata ai margini, divenuta una pratica
equivoca da imbonitori televisivi, meritando così lo sdegno del senso comune.
Non così è stato, però, per secoli, presso diverse civiltà europee ed
asiatiche; ciò vale anche per quelle classiche, che pure hanno contribuito alla
svalutazione della divinazione (neoaccademismo di Carneade; Cicerone…).
L’Enciclopedia Italiana cita,
come fondatori di quest’arte, i Babilonesi,
i “Caldei” degli autori classici. Fra i primi a guardare a oriente, in questo
senso, vi fu Erodoto di Alicarnasso (485
a.C.? – 425 a.C.?).
Nelle sue ΙΣΤΟΡΙΑΙ, fu il primo a parlare dei Magi (Μάγοι), collocandoli
nella Media del VI sec. a.C. Li cita come presenza irrinunciabile ai sacrifici
(I, 132) e responsabili dei riti funebri (I, 140). Soprattutto, però, essi sono
definiti τοι̃σι ονειροπόλοισι (I, 107): essi, dunque, sarebbero stati esperti
di oniromanzia. Come tali, sarebbero stati interrogati dal re medo Astiage.
Erodoto registra aneddoti ed usanze con curiosità ed attenzione, senza però
scendere in dettagli circa la scienza dei Magi. Non si sofferma su fondamenti e
metodi, né dà un giudizio culturale. Tutt’altro sarà l’atteggiamento di un
grande ammiratore di Erodoto, Cicerone (106
a.C. – 43 a.C.)
Egli
dedicò all’argomento i due libri DE DIVINATIONE (44 a.C.). Il libro II
raccoglie le argomentazioni contro la divinazione, svalutandola in favore di
altre discipline, come la fisiologia, l’arte militare o la filosofia (cfr.: II,
37; II, 52; II, 80).
Il bisogno di avvicinarsi all’ottica babilonese è
stato espresso, invece, dall’assiriologo Jean Bottéro. Egli ha messo
in luce il collegamento fra arte mantica ed azione umana. Essa è in
funzione di una previdenza pratica; i Babilonesi sarebbero stati alieni dalle
idee di FORTVNA e di FATVM di cui parla Cicerone. Piuttosto, essi consideravano
la realtà come strutturata su più livelli: quello umano e naturale, quello
divino e quello dei demoni più o meno benevoli. Secondo
la mentalità babilonese, la spiegazione di un evento, per essere soddisfacente,
deve connettere fa loro due piani, due diverse sfere della realtà; altrimenti,
sarebbe tautologica.
La cultura caldea si è dimostrata in possesso di
un’inesauribile curiosità empirica, che procedeva per accumulo di osservazioni.
Un esempio è dato dalla teratomanzia
l’esame dei parti umani ed animali. Essa ha
prodotto “trattati”, ossia raccolte di annotazioni. In
essi, non c’è traccia di formulazioni generali o astrazioni, come è tipico
della trattatistica babilonese. In compenso, alcune ipotesi vengono chiaramente
formulate per via deduttiva, profilando situazioni non verificate a partire da
quelle conosciute. Questo atteggiamento ricerca
l’universale a partire da osservazioni particolari: in altre parole, è un
atteggiamento di tipo scientifico.
Fonte di trattati simili fu anche l’oniromanzia, l’interpretazione dei
sogni. Ne abbiamo già visto un cenno in Erodoto, con collegamento alle vicende
di Medi e Persiani. Ben prima, però, veniva coltivata in Mesopotamia. La
testimonianza principale dei risultati raggiunti è il Ziqîqu, Ziqîqu (dal
suo incipit: “O dio dei sogni! O dio dei sogni!”), seconda metà del II millennio
a.C. La struttura è per elenco dei singoli casi espressi per periodi ipotetici,
come avviene nei trattati di teratomanzia. L’importanza delle visioni oniriche
era data dal loro stretto legame con l’interessato, lo stesso che viveva la
propria quotidianità di giorno.
Il campo in cui la ricerca empirica fu esercitata
maggiormente è però quello astronomico. Consiglieri, precettori e funzionari dei sovrani
assiri –per esempio- erano prevalentemente astrologi. L’opera che compendia il
maggior numero di osservazioni è l’Enuma Anu Enlil (prima metà del I
millennio a.C.). La struttura del trattato ricalca quelli già esaminati.
La curiosità empirica si estendeva, poi, ad un gran
numero di fenomeni, prodotti in “laboratori” allestiti ad hoc: venivano,
cioè, ricostruite le condizioni necessarie alla manifestazione di un fenomeno,
poi analizzato. Funzionano così: la lecanomanzia
(osservazione delle forme assunte dall’olio versato nell’acqua); la libanomanzia (studio delle volute di
fumo che salgono da un incensiere); l’aleuromanzia
(analisi della farina caduta su un piano).
Si tratta, in tutti questi casi, di lettura di segni. Ciò avvicinava la divinazione
alla medicina, come
interpretazione di sintomi, ed all’etica,
come capacità di ricavare insegnamenti dagli eventi. Una forma più recente di
divinazione, la fisiognomica,
sarebbe invece assimilabile allo studio della psicologia: nei tratti del volto si cercavano indizi della
personalità.
Suggestiva è l’ipotesi di Bottéro: l’arte mantica
deriverebbe dall’invenzione della scrittura.
Originariamente, infatti, essa si componeva di pittogrammi: segni che rimandavano
ad altri oggetti.
Entra ora in campo un’altra caratteristica portante
della divinazione: l’aspetto religioso. I segni interpretati sarebbero,
infatti, “pittogrammi divini” : messaggi scritti nella natura
dagli dei che la crearono. L’arte mantica collega, dunque, il piano umano a
quello sovrannaturale. In questo consiste la sua capacità di spiegare eventi e
fenomeni.
Il carattere di “scienza divina” è particolarmente
marcato nel caso dell’astrologia:
l’Enuma Anu Enlil sarebbe stato dettato dal dio della saggezza Ea; gli
astrologi erano ricercatori del volere divino, tenuti ad assoluto riserbo sulle
proprie conoscenze. Ciò conferiva loro un carattere di iniziati, sottoposti ad
un divieto religioso (di divulgare i segreti della disciplina). Allo stesso
tempo, le competenze acquisite li qualificavano come veri e propri astronomi.
Strettamente legata al culto era, poi, l’estispicina. Essa consisteva
soprattutto nell’osservare la conformazione del fegato nelle vittime
sacrificali (perlopiù ovini). L’epatoscopia
comportava un’analisi minuziosa dell’organo. Documenti
preziosi sono i modellini in argilla prodotti
come esemplari di responsi epatoscopici. Questi ultimi riguardavano spesso la
sorte dei regni e dei grandi casati, costituendo così anche un abbozzo di
storiografia. Essi dovettero la propria conservazione forse all’importanza
politica: sarebbe stato indispensabile ai sovrani saper riconoscere segni
simili, qualora si fossero ripresentati.
Modellini di fegati
provenienti da Mari e relativi alla dinastia di Akkad. Fonte: Mario Liverani, Antico
Oriente. Storia società economia, Editori Laterza, Roma-Bari 1988, p. 259.
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Il principio alla base dell’arte mantica è quello dell’analogia. In altre parole: ciò che accade fra gli astri o nelle viscere ovine è analogo a quanto avviene sulla terra, fra gli uomini. Ciò avverrebbe per la volontà divina di comunicare ai mortali, attraverso la propria “scrittura”.
Come già detto, la divinazione era finalizzata all’azione. Precauzioni e previdenze, però, spesso non potevano essere effettuate sulle cause dei mali, spesso inattingibili. L’azione, dunque, si rivolgeva ai segni che notificavano dette cause. Essendovi un collegamento fra il piano della causa e quello del segno, cancellare quest’ultimo avrebbe portato alla rimozione della prima. Le azioni sono di carattere rituale, talora puramente verbale. Esse potevano avere grande efficacia contro mali psicologici, come i turbamenti portati dai sogni infausti. Ciò vale anche per gli altri atti di scongiuro. Si può parlare di veri e propri esorcismi laddove i riti mirano ad allontanare spiriti malvagi, entità che costituivano un “livello di realtà” intermedio fra l’umano ed il divino, come accennato in precedenza.
La divinazione era praticata anche in Anatolia, presso gli Ittiti (1600 a.C. – 1200 a. C. circa). In questo campo, detto popolo era sostanzialmente allievo dei Babilonesi, la cui tradizione era giunta nel “paese di Hatti” tramite il mondo hurrita (Kizzuwatna, nel sud anatolico, e la Siria). Particolarmente incentivata era l’osservazione del volo degli uccelli. Tipico della divinazione ittita è, poi, il cosiddetto KIN: in uno spazio circoscritto, vengono posti in contatto fra loro simboli rappresentanti le realtà umane: “il re”, “la regina”, “il nemico”, ecc. Il responso è dato dalla loro posizione finale. Alla base sembra esservi un principio di tipo algebrico: gli elementi passivi (i simboli), spostati da uno attivo (un piccolo animale?), hanno valore positivo o negativo. Il risultato è dato dalla somma algebrica dei suddetti valori.
Nella tradizione mantica ittita ha un ruolo non indifferente la multietnicità dell’antica Anatolia: essa, infatti, ha incorporato i patrimoni culturali hattico (pre-indoeuropeo), luvio e palaico.
Non va trascurata l’importanza anche politica della divinazione: conoscere il volere degli dei e/o le ragioni della loro ira era fondamentale per il benessere di tutto il regno.
Dalle popolazioni fin qui esaminate si discosta Israele, così peculiare per tradizioni e identità etnica. Purtuttavia, talune pratiche divinatorie simili a quelle già viste trovavano posto anche nel suo mondo. Giuseppe, figlio di Giacobbe, avrebbe tratto presagi per mezzo di una coppa: si trattava, forse, di lecanomanzia. Egli è famoso anche come interprete di sogni (Gn 41) e così pure il profeta Daniele (Dn 2; Dn 4). Una forma di divinazione è la “prova delle acque amare”, adoperata per verificare la fedeltà delle mogli (Nm 5, 11ss.). Essa era strettamente legata al “sacrificio di gelosia”, offerto al Dio d’Israele perché desse il proprio responso. È, poi, menzionata la quercia di Morēh (=”dell’indovino”), forse impiegata dai Cananei per trarre presagi dallo stormire delle foglie (Gn 12,6; Dt 11,30; Gdc 9,37). Era legittima l’estrazione delle “sorti” poste nell’ephod, ad opera dei sacerdoti (Es 28,30; Dt 33,8). Severamente sanzionata era, invece, l’evocazione dei defunti, sebbene vi avesse fatto ricorso lo stesso re Saul (1 Sam 28,7ss.).
Ciò che fa veramente comprendere il punto di vista ebraico sulla divinazione è, però, il fenomeno del profetismo: il Dio d’Israele avrebbe comunicato al proprio popolo direttamente, tramite portavoce umani. Ciò sarebbe stato dovuto al rapporto privilegiato fa lui e la nazione ebraica. Emblematico è questo versetto: “Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?” (Dt 4,7). La capacità umana di conoscere la volontà divina sarebbe stata conseguente a detta vicinanza. La consultazione di profeti e “veggenti” (rō’ īm) era praticata dai sovrani, talora scelti dai profeti stessi (1 Sam 10,1ss.; 1 Sam 16,1ss.; 2 Re 9,1ss. …). Ma anche gli Israeliti comuni ricorrevano ai rō’ īm nelle varie circostanze della vita: Gn 25,22; Gs 7,14seg.; 1 Re 14,5…Queste pratiche sono da leggere nell’ottica di una comunione stretta fra la divinità ed il popolo che la venera, per cui la volontà della prima dà forma all’esistenza umana. Questa concezione della divinazione (e del profetismo in particolare) è peculiare di Israele.
In conclusione, possiamo dire che la divinazione, presso le culture che la generarono, era un sistema di pensiero, una concezione del mondo. Essa era normale nella vita quotidiana, nonché fondamentale per il buon governo di un regno. Più tardi, i filosofi greci avrebbero assimilato “la curiosità enciclopedica, il modo di accostarsi al reale universale ricercandone una conoscenza analitica, necessaria, deduttiva, a priori.
Gli atteggiamenti alla base della divinazione, separati dall’originaria concezione religiosa, sarebbero dunque giunti alla cultura classica e –tramite essa- alla nostra.
Bibliografia
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· Pettinato Giovanni, Angeli e demoni a Babilonia. Magia e mito nelle antiche civiltà mesopotamiche, Mondatori, Milano 2001, pp. 9-127;
· De Martino Stefano, Gli Ittiti,(“Le Bussole”), 1^ edizione, Carocci Editore, Roma 2003;
· Zingarelli Nicola, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli Editore, Bologna 2003, voce “Divinazione”.
Pubblicato su Uqbar Love N. 127 (19 marzo 2015), pp. 8-12.
Qui è visionabile il paper completo.
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