Dopo
I tre pilastri dello Zen, Philip
Kapleau torna su queste pagine con: La
nascita dello Zen in Occidente, Roma 1982, Ubaldini Editore [tr. it. di: Zen. Dawn in the West, New York 1978 – 1979, Anchor Press. Traduzione italiana a opera di
Nazareno Ilari]. Stavolta,
l’autore si presenta direttamente nelle vesti di roshi (“venerabile maestro”), intento a esporre negli Stati Uniti
il frutto del proprio percorso spirituale in Giappone. Ciò significa venire a
patti con le necessità dell’ambiente accademico, assai lontano da quel che è la
pratica dello Zen. Questa tradizione rifugge dai discorsi dotti e si affida
alla meditazione, come veicolo concreto per raggiungere l’illuminazione (la
caduta delle illusioni, compresa quella dell’esistenza di un “ego”). Parimenti,
i roshi, in Giappone, deprimono l’egotismo degli allievi,
dando risposte che deludono le loro aspettative intellettualistiche e tendono
al massimo il loro iniziale senso di frustrazione. Nel libro, invece, vediamo
un Kapleau circondato da studenti americani e intento a dar loro eleganti spiegazioni.
Buona parte del volume adotta dunque il genere letterario del dialogo, in linea
con la filosofia platonica e i catechismi cristiani sul modello “domanda e
risposta”. Le questioni sollevate dagli allievi riguardano i punti
tendenzialmente più cari agli occidentali: il rapporto fra lo Zen e la pratica
di altre religioni, la dieta, la sessualità, la maggiore o minore necessità del
dolore, la preghiera, la ritualità, l’etica, la responsabilità sociale, la vita
attiva, la psicoterapia, la vita oltremondana. In particolar modo, negli anni
in cui Kapleau scriveva, andavano diffondendosi negli Stati Uniti più
tradizioni spirituali di provenienza asiatica e “terapie alternative” troppo spesso al servizio della curiosità e
del narcisismo (pp. 24-29). L’autore non disprezza a priori tutto questo, ma
insegna a distinguere la ricerca della “piacevole atmosfera” da quella
dell’illuminazione. Sfata anche il mito della “via facile”, l’uso della
psichiatria e delle sostanze psicotrope per diventare un “mistico” in
pochissimo tempo (pp. 90-92). Esso era in linea con l’atteggiamento modaiolo
che gli statunitensi adottavano nei confronti delle spiritualità “alternative”,
alla fine degli anni ‘70. Lo Zen parte piuttosto dalla fede nell’ “intrinseca
purezza del complesso psicofisico” (p. 91) e dalla responsabilità verso la
salute. Kapleau, poi, non identifica lo Zen col vegetarianesimo o con qualche
dieta particolare (pp. 31-33), perché questo comporterebbe divenire schiavi di
un regime alimentare. In compenso, insegna il rispetto verso gli esseri viventi
sacrificati per farne cibo, al fine di non ucciderne più del necessario –
avendo essi lo stesso diritto dell’uomo di stare al mondo (pp. 230 ss.). Molta
attenzione è posta anche all’atteggiamento con cui i pasti sono preparati,
perché esso si ripercuoterebbe sui commensali (p. 31). Alla base di tutto
questo, rimane l’interdipendenza fra equilibrio spirituale e salute fisica.
Lo Zen non impone neppure il celibato, ma lo consiglia a chi abbia già
raggiunto l’equilibrio psicofisico necessario, come fonte di libertà da
preoccupazioni e schiavitù interiori (pp. 82 ss.). Centrale rimane comunque
l’atteggiamento di empatia e cura amorevole verso gli altri, al di là di ogni
vano puritanesimo. Ciò si ricollega anche al particolare rapporto fra Buddhismo
e case di malaffare (pp. 223 ss.). Una delle prove più dure di Kapleau in
Giappone consistette, per l’appunto, nel dover affrontare un’ “orrenda
prostituta” (p. 227): “Se il mio sviluppo spirituale fosse stato maggiore,
avrei avuto dei rapporti con lei senza usare o abusare del suo corpo e avremmo
raggiunto l’unità trascendendo l’atto sessuale. Ma commisi l’errore fatale di
tutti i principianti, cioè mi separai da lei giudicandola e disprezzandola. […]
Rifiutando la sua offerta non feci altro che negare l’intrinseca purezza e
dignità di un essere umano…” (p. 229).
Contrariamente, poi, a quanto
pensano tanti occidentali, lo Zen non sprezza né la ritualità, né forme di
preghiera e venerazione. Prosternazioni,
offerte floreali alle immagini del Buddha, bastoncini d’incenso sono atti da
cui trabocca la pienezza del cuore e che riconfermano l’indivisibilità della
propria natura essenziale dalla Natura di Buddha (pp. 185-186). Esprimono la
gratitudine verso tutti coloro che hanno aperto il cammino spirituale e l’hanno
reso possibile all’allievo (p. 186). Tutto ciò fa sì che una semplice immagine
scolpita prenda, in un certo qual modo, vita, riuscendo a ispirare i praticanti
(p. 187). “Gli atti devozionali aiutano a creare fra noi e i buddha un intimo
rapporto – un legame karmico, se vogliamo – che accresce la fede nella verità
dei loro insegnamenti e dà più forza alla pratica” (p. 190).
D’altro canto, Kapleau confuta chi
vorrebbe vedere nella meditazione e nel “ritiro dal mondo” un modo per
“evadere”: “I cosiddetti ‘benefattori’ pensano indubbiamente di aiutare la
società in quanto si ingeriscono indebitamente negli affari altrui, cercando di
instillare in essi la formula della felicità che credono di possedere. È chiaro
allora che la frase ‘aiutare la società’ è qualcosa di vago, uno slogan a buon
mercato, almeno quando si riferisce a un particolare tipo di attività. Se mai
esiste un tipo di aiuto, esso deve invece agire dall’interno, migliorando la
natura stessa dell’individuo e dando valore alla varietà dei suoi rapporti con
la vita. […] Dato che purifichi la tua mente dal desiderio, dall’ira e dagli
interessi egoistici e riempi il tuo cuore di calma e compassione, diventerai
sempre migliore nei riguardi dei tuoi genitori, di tua sorella, di chi abita
vicino a te e dei tuoi colleghi di lavoro” (p. 211). Essendo poi tutti gli
esseri intimamente collegati fra loro, un maestro zen che si ritira per
dedicarsi alla meditazione farà riverberare la propria illuminazione anche su
ogni altra creatura vivente, in un modo simile alla trasmissione di onde radio
(pp. 51 ss.). Interconnessi fra loro sono anche i praticanti e chi li ha
preceduti, i Buddha (= il fondatore del
Buddhismo e tutti gli altri illuminati) e i Bodhisattva (= coloro che hanno
rimandato il momento dell’illuminazione più profonda per dedicarsi alla cura degli
altri). A questi ultimi, i buddhisti sono legati sia per il fatto di seguire la
via spirituale aperta da loro, sia per via di forme di preghiera, come abbiamo
già accennato: “Quando si cade preda della frustrazione e della disperazione,
il sedersi di fronte a una figura di buddha che emana un senso di compassione e
di saggezza può dare via libera alle energie buddhiche, le quali, in unione con
la Natura di Buddha, sono fonte di ispirazione e di nuovo vigore” (p. 190). Il
fatto che le figure ispiratrici siano biologicamente defunte non impedisce tale
legame, anche per via della concezione zen della morte fisica: “Vi siete mai
chiesto che cosa accade alla forza vitale, all’energia che presiede alle
attività costitutive del sé, dopo la disintegrazione del corpo? La legge della
conservazione dell’energia afferma che l’energia si conserva all’infinito, e
subisce solo delle trasformazioni; perciò come è possibile che questa forza
vitale scompaia per sempre?” (p. 71).
Da un punto di vista occidentale, lo
Zen si rivela non essere una “filosofia”, perché diffida delle speculazioni
astratte. Non è nemmeno una “religione” – intesa come insieme di dogmi,
superstizioni o miracolismo. Tuttavia, nello Zen, si possono trovare gli
elementi costitutivi di ogni religione; e, viceversa, in ciascuna di esse si
può rinvenire almeno un elemento di Zen.
Uqbar
Love n. 123, 18 febbraio 2015, pp. 5-6.
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