People are strange when you're a stranger,/Faces look ugly when you're
alone… (The
Doors). Quando si è estranei, tutto è strano. Si vedono pericoli in ogni ombra,
ma - soprattutto - non si vede il vero volto delle persone. Quello che dovremmo
temere.
In
questo senso, Michael (Jason Patric) e Sam Emerson (Corey Haim) sono Ragazzi perduti (1987; regia di Joel
Schumacher). Il titolo originale è The Lost Boys, espressione
con cui il buon J. M. Barrie indicava i compagni di Peter Pan. I bambini che si
trovano sull’Isola-che-non-c’è non possono crescere - e avrebbero bisogno di
una madre. Quella di Michael e Sam - Lucy (Dianne Wiest) è dolce e protettiva;
ma ha appena divorziato dal marito e fa fatica a occuparsi dei figli, per
quanto ci provi. Per questo, si trasferisce a casa dell’eccentrico nonno (Barnard
Hughes), a Santa Carla. Apparentemente, è una vacanziera cittadina
californiana, con tutto quel che serve per godersi i consumistici anni ’80. Ma
ha un doppio volto che solo un occhio limpido di ragazzino (come quello di Sam)
può vedere: è la capitale mondiale degli
omicidi. Perché vi si trovano altri ragazzi
perduti: David (Kiefer Sutherland) e la sua banda di vampiri. Nemmeno loro
possono crescere. La loro condizione li mette al riparo dal passare del tempo,
come quegli animali impagliati di cui il nonno si riempie la casa: immortali, o
- meglio - morti per sempre. Perché
chi è un assassino per natura è morto alla società dei propri simili. E di creature simili si tratta, per dirla con
Simone Tosoni ed Emanuela Zuccalà: i vampiri lo sono fra loro, come fratelli e membri di un branco; lo sono
rispetto a tanti punk degli anni ’80, giovani emarginati con madri assenti e padri
borghesi. Padri che non credono nel
mostro dell’armadio, quel poco di bestia che c’è in ognuno. O che, al
contrario, lo nascondono dietro camicia e cravatta. Un pretendente perfetto può
non essere molto diverso da un capo teppista: entrambi cercano prede, persone
su cui mettere un sigillo di proprietà. Entrambi sono abili illusionisti,
capaci di far credere alle vittime che stanno bevendo il buon vino dell’accoglienza,
quando invece è sangue.
Questi vampiri al passo coi tempi hanno lasciato perdere bare e mantelli. Si
vestono con borchie e giubbotti, cavalcano motociclette. Abitano la movida. E
vanno combattuti con mezzi adeguati alla loro epoca: fumetti e pistole ad
acqua. La plastica e la produzione in serie hanno fagocitato proprio tutto,
sembrerebbe: anche i miti non-morti. I cenni al celeberrimo Dracula sono
puramente formali - compreso il nome della donna desiderata, omonima di Lucy Westenra. Il nido della confraternita è una caverna in cui si trovano i resti di un
albergo di lusso. I ragazzi perduti amano
le ossa della civiltà del benessere, così ricche da spolpare e così vuote di
senso, come la loro non-vita.
Lottare contro i vampiri significa
lottare contro la propria cecità davanti alla vera natura delle persone;
significa rinunciare a un bisogno di appartenenza che diventa - troppo facilmente - omologazione, conformismo,
istinto del branco. È difficile resistere a quel dolce
richiamo: «Sii uno di noi!» Specialmente, quando si ha bisogno di una famiglia.
Specialmente, quando il capo ci ha già marchiati e ci pretende come suoi. Ma la
vera personalità non è così facile da uccidere, se si è vivi - se si hanno
riferimenti affettivi.
Il film plana su un gesto di pacata
insofferenza, quello di un personaggio che tutto sa e tutto vede di quanto
accade in città e nella sua famiglia: cose che non ha mai potuto digerire. La ferocia, la solitudine, l’indifferenza.
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