«Potresti scrivere
qualcosa sulla condizione del poeta oggi» mi ha suggerito Stefano, quella
mattina, al tavolino di un caffè.
Allora, ho pensato a Davide, all’estero
per ragioni di studio, ma che continua a proporre recensioni in italiano; alla
sua rinuncia alla scorrevolezza della rima, per distillare lo scheletro dei
pensieri. Ho pensato a Dario, bohémien dal
berretto irlandese, che non dorme mai, per captare le “frequenze clandestine”
delle vite che passano. Mi è venuta in mente Virginia, con la sua attività
d’insegnante. Poi, Roberto, in grado di leggere poesia polacca in lingua
originale. Ho pensato a Barbarah e al suo linguaggio, naïf e irripetibile come quell’h
aggiunta al suo nome. Ho ricordato gli acquerelli in versi e le partiture
musicali di Alessandro. Ho visto Robert, giovane immigrato per cui la poesia è
esercizio di quotidiana resistenza alla vita. Mi sono venuti in mente l’
“amore” e la “contestazione” di Tito, un Cecco Angiolieri ibridato con la Beat
Generation. Ho pensato a Simona, una “cicala” che studia Filosofia e canta
“dall’alto di una chioma fresca”. A Lilia, una voce del secondo Novecento. A
Erica (non io), che ha fondato una piccola casa editrice e ne ha curato anche i progetti grafici. A
tutti i ragazzi (più o meno giovani) che si radunano mensilmente a un pub per
condividere versi. A Giulia e alla sua seducente classicità. Allo stesso
Stefano e alle sue nostalgie futuristiche (sembra un paradosso, ma non lo è). A
Monja, un’ “ingegnera” che cova i propri germogli letterari. A Riccardo e al
potere dei suoi giocattoli che diventano nocciolo dell’uomo. A Beatrice e alla
magia della sua mitopoiesi. Mi sono ricordata di Anna, per cui la poesia è una
delle tante passioni in un’infaticabile vita. Di Carlo, che ha visto l’amore
“scadere come il latte”, ma non ha rinunciato a farne una bevanda dissetante.
Del Gruppo H5N1, la cui aerea viralità ha regalato “Poesia d’Amuro” che si
stinge inesorabilmente nelle nostre strade. Ho riassaporato le “parole senza
filtro” di Vincenzo Costantino Cinaski, fumose come il cuore di una città.
“Non chiederci la parola…” ammoniva
Eugenio Montale. Eppure, non è morta quella “che mondi possa aprirti”. “Qualche
storta sillaba e secca come un ramo”: una forma sfacciatamente perfetta per una
chiave. Dietro la porta aperta dalla poesia, però, non si troveranno “reami
d’amor” o qualunque altra cosa rappezzi le frustrazioni del quieto vivere. Ci
sono le tazzine di caffè e i bicchieri di vino; le formiche e le cicale; il
tempo, l’eternità e ciò che precede il tempo; i ricordi e l’universo che
affonda in un “boato bianco” (Simona De Salvo). Tutto quello che crediamo (non)
nostro.
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