Mi sono accostata a The Rocky Horror Picture Show (1975, regia di Jim Sharman) perché
incuriosita dal sito A Study of Gothic Subculture: An Inside Look for Outsiders. Il musical,
infatti, compare nell’elenco di film proposti come esempi di estetica cinematografica gothic. Di certo, l’ambientazione notturna, il castello e i
richiami a miti come quello di Frankenstein spiegano l’inclusione nella lista.
I motivi di interesse che ho trovato nel film, però, sono stati anche d’altra
natura e decisamente inaspettati.
Il primo fotogramma dopo i titoli di
testa inquadra una croce celtica che sormonta un campanile. È appena stato
celebrato un matrimonio, tradizionale momento di risveglio della sessualità in
un paesino piccolo e pudibondo. Su questo sfondo, i protagonisti Brad (Barry
Bostwick) e Janet (Susan Sarandon) si dichiarano ufficialmente il proprio
amore. Le loro parole e i loro abbracci sono contrappuntati dai figuri
spettrali che preparano un funerale. Eros e morte sono eguali, egualmente
conturbanti ed egualmente celebrati/castrati dal rito. La graziosa cornice
campagnolo-puritana, però, non salverà i due piccioncini dal viaggio sul
pianeta verso il quale il loro neonato rapporto li dirige.
Il loro fidanzamento è un’automobile
in una notte nebbiosa, sfiorata da motociclisti la cui temerarietà impaurisce e
sfida la coppia. Poi, uno smarrimento e un guasto. Brad e Janet si inoltrano
così a piedi nella notte dei propri istinti. C’è una luce, sì, c’è una luce nella notte per tutti. Ma
quel genere di luce che mostra ciò che non si vorrebbe vedere. Ovvero,
accecante.
Essa promana dal “castello di
Frankenstein”, in linea con quel gioco dichiarato dalle labbra rosse che aprono
i titoli di testa snocciolando gli eroi della fantascienza. Pupazzi,
nient’altro che pupazzi ormai vuoti. Tanto vale sostituirli con maschere
festaiole e travestiti in reggicalze: gli alieni in missione dalla galassia di Transilvania. La gimcana esibita e
parodistica, però, evidenzia la forza tipica di horror e fantascienza: la
capacità di deformare le comuni nozioni di essere umano, tempo e spazio. Questa
deformazione è un gioco al quale i transilvanici
si abbandonano con piacere rapinoso (Let’s
do the time warp again!). Gli svenimenti di Janet non sono forse una
reazione così esagerata, dopotutto. Hanno quasi un che di dantesco; sanno dello
smarrimento umanissimo e immane davanti all’ingresso nell’Inferno propriamente
detto e alla sorte di Paolo e Francesca.
Né c’è barriera prestabilita fra
amore e odio, quei LOVE e HATE tatuati sulle dita d’una vecchia
fiamma di Frank (Meatloaf): citazione dal celeberrimo film di Charles Laughton,
The Night of the Hunter (La morte corre sul fiume, 1955). Anche questa è la notte di un cacciatore. E l’odio della creatura (un “mostro
di Frankenstein” tutt’altro che mostruoso, se non per le dimensioni dei bicipiti)
verso il creatore può rovesciarsi in amore e in una fusione di destini.
Frank
non sarà sconfitto dai due fidanzatini, troppo sprovveduti per difendersi dai
fantasmi dell’eros. Né sarà sgominato da un professore tedesco sedicente
statunitense (Jonathan Adams), incarnazione dell’ordine e della morale (la
doppiezza spionaggesca del personaggio, però, rende i suoi valori alquanto
sospetti). La sua stessa malata ricerca d’amore lo ucciderà. Statue e pupazzi
possono compiacere l’ego, ma trascurare le vive fonti d’affetto che vivono alla
nostra ombra è un errore da cui non c’è ritorno.
Dal
caleidoscopio di incubi erotici, i terrestri
si risvegliano ritrovandosi perduti nella notte e nella foschia. I gesti
smarriti di Brad e Janet che si protendono l’uno verso l’altra –senza riuscire
a vedersi- rievocano le parole cantate dai Nomadi ne Il libero: fra savi e pazzi,
che differenza
c’è,
se –nel buio- se
tutti si cercano
e non si trovano
e non si trovano
mai?
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