Cominciare
una nuova vita è un po’ come morire –e viceversa. Se ne rendono conto Adam
(Alec Baldwin) e Barbara Maitland (Geena Davis), novelli sposi e, ben presto,
novelli defunti. Beetlejuice (1988;
regia di Tim Burton) inscena un “colpo di destino” molto sardonico: la vita dei
giovani coniugi si trova appesa a un filo, o, meglio, a un pelo di cane, tanto
precario da sembrare calcolatissimo. Comunque, non si nota alcun distacco tra
“aldiquà” e “aldilà”. Gli sposini passano dalla vita terrena a quella spettrale
senza apparente attrito, forse anche per via della sorpresa e dello shock. Non
hanno avuto tempo di rendersi conto di cosa fosse la morte e, a dire la verità,
non l’avevano mai considerata nelle sue dimensioni. Dovranno conoscerla passo
dopo passo, rendendosi conto che la loro familiare casetta è diventata un posto
ignoto, dove le fiamme del caminetto non bruciano più, ma una semplice porta
conduce in mondi deserti e ostili. Davanti alla morte, ogni uomo è tanto
sprovveduto da aver bisogno d’un elementare manuale. Per il resto, occorrono un
po’ di pragmatismo e di iniziativa, come quando si affronta la vita.
Esattamente come nell’esistenza terrena, è tutto molto personale. Ognuno nasce e muore, ma ciò che succede dopo
questi due eventi naturali e universali è tutto da decidere. E permane, dopo il
decesso, il pericolo della vera morte: l’oblio e la perdita di identità.
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