Passa ai contenuti principali

EQUIlibri



Non si dà definizione di “buon giornalismo”, senza che ci si profonda –contemporaneamente- nell’elogio dell”equilibrio”. Chiunque sia a parlare –un brillante opinionista, un puntuale cronista o, semplicemente, un pubblico scribacchino- pare che detto “equilibrio” sia intrinseco all’εὐεφημερία.

Poco importa se, dietro, vi sia la volontà di rispettare e far comprendere, o la sorniona abilità di un persuasore consumato. L’ “equilibrio” è un lasciapassare universale. Consiste, in ultima analisi, nel piallare le parole, privarle delle loro asperità, rendendole solide e lisce come il piano d’un tavolo. Eliminare i verbi croccanti, gli aggettivi pungenti, i sostantivi abbaglianti. Far scomparire, infine, sotto quella superficie glassata, la consistenza carnosa del proprio sé.


            Viene da chiedersi cosa resti, una volta sfrondato tutto questo. Ancora una volta, poco importa. Si avrà rispettato una regola, più o meno scritta, e tanto sembra bastare.


            Ancora: il famoso Equilibrio fa il paio con un’altrettanto illustre figura, l’Oggettività. Cosa sia –o, meglio, se esista questa Oggettività, non è dato sapere. Si sa soltanto che un articolo è prodotto d’un redattore, o di più redattori. Occhi ben circoscritti nelle orbite, cervelli rigorosamente recintati dai crani. Questo sono e questo resterebbero, fossero anche gli spiriti più puri, gli intelletti più profondi, le anime più belle reperibili sulla piazza del mondo.


            Voi, che fate crocchiare la carta sottile ed olezzante di petrolio, non indignatevi, se l’ “equilibrio” lascia balenare, talora, una scintilla di passione, o se l’ “oggettività” è sostituita da una scolpita personalità. Ciò non è un abuso. È la semplice rivelazione di quel che è sempre sotto i vostri occhi. Ci sono un pensiero, un’intenzione, dietro la pagina, non una disincarnata Verità. È più facile che si burli di voi l’ “equilibrio”, piuttosto che lo slancio. Può essere che quella deroga all’ “oggettività” sia la cosa più onesta che abbiate mai trovato su un giornale.

Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

"Gomorra": dal libro al film

All’inizio, il buio. Poi, lentamente, sbocciano velenosi fiori di luce: lividi, violenti. Lampade abbronzanti che delineano una figura maschile, immobile espressione di forza.   Così comincia il film Gomorra, di Matteo Garrone (2008), tratto dal celeberrimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. L’opera del giornalista prendeva avvio in un porto: un container si apriva per errore, centinaia di corpi ne cadevano. Il rimpatrio clandestino dei defunti cinesi era l’emblema del porto di Napoli come “ombelico del mondo”, dal quale simili traffici partono ed al quale approdano, da ogni angolo del pianeta. Il film di Garrone si apre, invece, in un centro benessere, dove regna un clima di soddisfazione e virile narcisismo. Proprio qui esplode la violenza: tre spari, che interrompono il benessere e, al contempo, sembrano inserirvisi naturalmente, come un’acqua carsica che affiora in un suolo perché sotto vi scorreva da prima. Il tutto sottolineato da una canzone neomelodica italiana: i