Parte I: Fili pendenti
5.
Amedeo
si accostò al portoncino di quella palazzina liberty, in via Mazzini, a Pavia. Allungò un dito e premette un
campanello, in quella fila di pulsanti d’ottone. Al citofono, gli rispose una
voce di donna: «Chi è?»
Lui deglutì. «Sono il fidanzato di
Nilde» rispose poi, con la voce leggermente rauca.
Uno
scatto segnalò l’apertura dell’ingresso.
Mentre
entrava nel piccolo chiostro e cercava le scale, memorie confuse – tattili – si
affollarono dietro la sua fronte. Memorie di lui, bendato, che braccia robuste
spingevano lungo quegli stessi percorsi – un portoncino, un cortile, una rampa
di scale.
Era stato un sollievo sentir la voce
della donna delle pulizie, anziché quella del dottor Ario. Il responsabile dei
suoi incubi.
Ho
ottenuto la tua liberazione, accettando
di tornare a vivere con mio zio…
Nilde
era sfuggita alla sepoltura in vita anche grazie a un atto azzardato di Amedeo:
forzare la camera mortuaria nottetempo e aiutare a fuggire lei, che si era
risvegliata. Ario non l’aveva presa bene. Aveva voluto fargli assaggiare la
prigionia in casa sua, la paura logorante inghiottita ogni minuto, nell’attesa
dell’incognito. Poi, l’aveva rilasciato, a patto che la nipote tornasse sotto
il suo tetto, a fingere una routine insieme a colui che aveva cercato di
piegarle il carattere con quel supplizio grottesco. Come poteva Nilde sopportarlo?
Amedeo se lo domandò con ancor più
forza, quando lei gli aprì l’uscio di casa sul pianerottolo e gli tese le
braccia, con un sorriso radioso. Poi, gli occhi gli caddero sui vestiti nuovi
della ragazza.
«Da quando porti quel corsetto da
vamp?» le domandò, sentendo strisciare in sé pensieri più ameni. «Da quando la
stagione è bella» rispose Nilde, con la sua voce tersa e profonda. Lui guardò
la ricca chioma castano-rossiccia giocare col candore delle spalle. La seguì
lungo i corridoi. Nilde si fermò davanti a una porta. Fece scattare la
serratura. Amedeo ammutolì.
Davanti a lui, si era aperta una
biblioteca austera, con mobili scuri e moquette. Un busto in gesso della dea
Minerva rispose al suo sguardo attonito.
«Scusa, se ti riporto qui…» fece
Nilde, con un’ombra sul volto. Lui non rispose. Non aveva sicuramente
desiderato rivedere il luogo ove il dottor Ario l’aveva rinchiuso per giorni.
«Però, è il posto dove ho passato le ore migliori della mia adolescenza»
riprese la ragazza, con un velo trasognato nelle parole. «Desideravo lasciarne
un buon ricordo anche a te».
Amedeo
varcò la soglia con lei, in silenzio. Sentì la serratura scattare di nuovo,
dietro di lui, e non poté trattenere un sussulto. Decise di calmarsi.
Quando Nilde si volse a lui e gli
sorrise di nuovo, la traccia dell’incubo gli oscurò – per un attimo – il cuore.
Poi, si lasciò cingere e scivolò nella morbidezza del corpo di lei. Le dita di
Nilde giocavano – senza bruciarlo – con le sue ciocche ramate e il suo collo
latteo. Gli occhi color nocciola del ragazzo si accesero. Insensibilmente, la
sua stretta attorno ai fianchi della giovane si faceva più impietosa. Avvertì
il bisogno, dolcissimo e prepotente, di posare il corpo di lei sul velluto che
copriva quel tavolo, in mezzo alla biblioteca. Le carezze sul suo torso magro,
attraverso la camicia scura, lo stordivano. La bocca di lui percorse la gola
tenera, scese ad accendersi sui piccoli seni marmorei – i lacci del corsetto
cedevano alle sue dita. I ricordi della prigionia naufragarono in un lago di
fuoco.
[Continua]
Pubblicato su Uqbar Love, N. 176 (24 marzo 2016), p.18.
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