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"Gomorra": dal libro al film

All’inizio, il buio. Poi, lentamente, sbocciano velenosi fiori di luce: lividi, violenti. Lampade abbronzanti che delineano una figura maschile, immobile espressione di forza.


 Così comincia il film Gomorra, di Matteo Garrone (2008), tratto dal celeberrimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. L’opera del giornalista prendeva avvio in un porto: un container si apriva per errore, centinaia di corpi ne cadevano. Il rimpatrio clandestino dei defunti cinesi era l’emblema del porto di Napoli come “ombelico del mondo”, dal quale simili traffici partono ed al quale approdano, da ogni angolo del pianeta.


Il film di Garrone si apre, invece, in un centro benessere, dove regna un clima di soddisfazione e virile narcisismo. Proprio qui esplode la violenza: tre spari, che interrompono il benessere e, al contempo, sembrano inserirvisi naturalmente, come un’acqua carsica che affiora in un suolo perché sotto vi scorreva da prima. Il tutto sottolineato da una canzone neomelodica italiana: il genere di musica con cui i killer di camorra si galvanizzano, racconta Saviano. Più volte note simili si odono nelle scene; fanno parte dei “quadri di vita” campani. È apprezzato Gigi D’Alessio, ma ogni quartiere ha i propri piccoli idoli musicali.

Chi confrontasse Gomorra cinematografico con quello cartaceo si accorgerebbe di una differenza ovvia: mentre il pregio del libro consiste nell’analisi, quello del film consiste nella sintesi. Questione che si ripropone ogniqualvolta contenuti passano dalla pagina alla pellicola.
Gli argomenti suddivisi ed approfonditi uno per uno da Saviano in capitoli sono stati trasformati da Garrone in un continuum. Il film seleziona le tematiche portanti: la guerra di Secondigliano tra i fedeli del clan Di Lauro e gli scissionisti; il traffico di cocaina; lo smaltimento illegale di rifiuti tossici; l’impiego nell’alta moda di manodopera sottopagata, italiana o, spesso, cinese; il ruolo dei gangster movie come modelli di vita; un cenno alla gestione camorrista della prostituzione (il locale a luci rosse in cui vengono scovati Ciro e Marco).


Personaggi reali, che nel libro di Saviano compaiono momentaneamente, prestano al film le proprie vicende come linee portanti. Don Ciro, il “sottomarino” che porta le “mesate” alle famiglie dei camorristi, è silenzioso e malinconico come lo descrive il giornalista. Attraverso di lui, lo spettatore entra nella quotidianità delle case, dei rioni.


Don Ciro sembra poter restare fuori dalla violenza del mondo in cui scivola; ma i suoi passi finali tra cadaveri e sangue smentiscono questa parvenza. Da presenza passeggera (nel libro), diventa prova incarnata di quanto scrive Saviano: “Sembrava impossibile avere un momento di pace, non vivere sempre all’interno di una guerra dove ogni gesto può divenire un cedimento, dove ogni necessità si trasformava in debolezza, dove tutto devi conquistarlo strappando la carne all’osso” (pag. 348).

Totò e Simone, due ragazzini di Scampia, nel film interpretano due amici assoldati dal clan Di Lauro. Vengono rappresentati i particolari salienti del loro addestramento, così come lo descrive il libro: “Per addestrare a non avere paura delle armi facevano indossare il giubbotto ai ragazzini e poi gli sparavano addosso” (pagg. 122-123). La scena successiva mostra Totò che si osserva una delle “melanzane” (lividi) prodotte dai colpi.
In Totò e Simone sono condensati tanti anonimi soldati di camorra, come loro preadolescenti. Le loro figure aiutano anche a comprendere in quale clima fosse vissuta la guerra di Secondigliano, quanto interiorizzata fosse la logica della lotta camorristica. Simone dichiara all’amico che non potranno più andare d’accordo come prima: lui è diventato scissionista, quindi nemico di Totò e pronto anche ad ucciderlo, se sarà necessario.
Totò è più insicuro, meno compenetrato da quella logica militare. La sua “iniziazione” sarà completa solo quando accetterà di attirare in trappola Maria, la madre di Simone. Le modalità sono quelle dell’omicidio di Carmela “Pupetta” Attrice: “Da tempo la donna non usciva di casa, così per eliminarla usano un ragazzino come esca. Citofona. La signora lo conosce, sa bene chi è, non pensa a nessun pericolo. Scende ancora in pigiama, apre il portone, e qualcuno le punta la canna della pistola in faccia e spara” (pag. 114-115). Più vicende sono concentrate, grazie a simili procedimenti di identificazione.


Il conciliabolo che decide, nel film, la morte di Maria serve a mostrare alcuni caratteri della violenza camorrista: l’obbligo dell’obbedienza al clan fino al tradimento dei propri affetti privati; un certo pregiudizio rétro che rende qualcuno restio ad uccidere le donne; l’idea delle vittime come “melma” su cui sparare anche in caso di colpevolezza dubbia, solo per oggettivare la propria forza.

La morte della quattordicenne Annalisa durante l’attentato a Salvatore Giuliano è appena adombrata. Garrone se ne serve per rappresentare quelle adolescenti napoletane che “sembrano già donne vissute” (pag. 176). Guardinghe, respingono i ragazzi o ne accettano le attenzioni oculatamente. “Con i ragazzi, nulla è lasciato alla casualità dell’incontro, al fato dell’innamoramento” (pag. 159).


Il potere del cinema come maestro di vita è incarnato da Marco e Ciro (detto “Piselli’ ”). I loro personaggi ricalcano Giuseppe e Romeo, due ragazzi che decisero di esercitare la microcriminalità in proprio, tra Casal di Principe e San Cipriano d’Aversa. Riprendevano vesti e atteggiamenti di personaggi cinematografici come Tony Montana o Donnie Brasco; sapevano a memoria interi stralci di Pulp Fiction, Taxi Driver e di altri famosi gangster movie. Garrone esemplifica questa caratteristica presentando Ciro e Marco che si esercitano a sparare nei resti della villa di Walter Schiavone, copia di quella di Scarface. Alla fine della scena, uno dei due recita alcune battute di Tony Montana, sedendosi nella vasca monumentale descritta da Saviano (pag. 286).
Il film si conclude con la loro morte in un agguato. Il clan dei Casalesi, dopo ripetuti richiami, li ha condannati a morte. Commenti dei killer nel film: “Tanta fatica per due mocciosi!” “Bisognava farlo”. I due giovani corpi vengono portati via da una ruspa, verso quella spiaggia su cui Ciro e Marco provavano le armi rubate. Una conclusione che pone l’accento sulla fatalità, sul “ritorno eterno delle leggi di questa terra” (pag. 179). La chiusa del libro, seppur non meno drammatica, aveva un altro tono: “Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni, come Papillon, con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva ancora pompare: <<Maledetti bastardi, sono ancora vivo!>>” (pag. 349).


Una conclusione che fa pensare, piuttosto, alla risoluzione di Roberto, il personaggio che allude all’autore fin nel nome. La presenza dell’ “io” di Saviano, fattosi narratore omodiegetico, era costante nel libro. Il cinema non avrebbe potuto restituirla tale e quale. Perciò, la sceneggiatura ha fatto ricorso a Roberto, giovane e brillante apprendista di Franco. Franco è uno stakeholder che organizza lo smaltimento irregolare dei rifiuti tossici. Dietro la maschera di correttezza, sa bene di quali veleni vada foderando la sua terra. Quel traffico è il suo primo pensiero, anche durante la morte di un familiare (nel film). Il ragazzo gli è stato affidato dal padre di lui, preoccupato dell’inserimento del figlio nel duro mondo che lo circonda. La professione di stakeholder fu effettivamente proposta anche al Roberto in carne ed ossa: “Sei laureato, le competenze ce le hai, perché non ti metti a fare lo stake?” (pag. 334). Il genitore della pellicola ricorda, assai lontanamente, il vero padre di Saviano, suo primo iniziatore al funzionamento del Sistema. Una figura che, nel libro, unisce l’amore paterno al disincanto, la bontà di fondo all’amarezza: “È così che si fa il bene, solo quando puoi fare il male. Se invece sei un fallito, un buffone, uno che non fa nulla. Allora puoi fare solo il bene, ma quello è volontariato, uno scarto di bene. Il bene vero è quando scegli di farlo perché puoi fare il male” (pag. 198). Né il padre cartaceo, né quello cinematografico vedranno realizzati i progetti sul figlio. L’autore del libro non ha studiato Medicina, come il genitore, ma Filosofia, “per non decidere al posto di nessuno” (ibidem).  Nel film, Roberto tace. Ma osserva. E la sua risoluzione esce alla luce quando Franco gli ordina di gettare le pesche regalategli dalla vicina, perché più conscio di lei di quanto siano intossicate. Roberto guarda la propria terra, divorata dalla lebbra dei rifiuti. È lei la testimone della sua scelta. Franco cerca di dissuaderlo con un discorsetto realmente udito da Saviano: “Ti fa schifo questo mestiere? Robbe’, ma lo sai che gli stakeholder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo alle loro aziende?” (pag. 338). Roberto è irremovibile. L’ultima scena che lo riguarda lo mostra allontanarsi, solo, con le spalle voltate a Franco e a tutto ciò che questi rappresenta. Una sorta di allusione metacinematografica alla nascita di Gomorra come atto di ribellione, di diversità. L’ultima autodifesa di Franco è: “Non credere di essere migliore di me!” Leitmotiv di quella “macchina del fango” che ossessiona Saviano: il tentativo di delegittimare un messaggio intaccando il profilo morale del suo autore.

Gomorra, con la sua concretezza, le voci e gli odori che trasudano dalle pagine, si prestava in parte a farsi film. Ciò è avvenuto realmente, grazie ad una sapiente sceneggiatura, un’abile regia e ad attori credibili, “presi dalla strada”. La colonna sonora –come detto in precedenza- esprime i gusti musicali diffusi nel napoletano. Setting e costumi recano il marchio della quotidianità, perfino nell’artificio della celluloide. I fotogrammi sono nitidi, senza sbavature. Memorabili i primissimi piani in ombra, come quello di Maria, o del sarto Pasquale, avvicinato dall’operaio cinese che gli propone di insegnare il proprio mestiere ai suoi connazionali. Le inquadrature sono perlopiù oggettive, in modo da rendere protagonista non la soggettività di questo o quel personaggio, ma l’ambiente, il Sistema.
Le battute –per scelta coraggiosa- sono in dialetto napoletano. Questo realismo linguistico include anche espressioni gergali annotate da Saviano, come “fare un ‘pezzo’ “ o “Case dei Puffi”.
Gomorra-film si lega a Gomorra-libro in un rapporto non di imitazione, ma di traduzione. La fedeltà di quest’ultima consiste proprio nella sua libertà: non pretende di essere copia pedissequa del libro, ma ne rende i contenuti salienti tramite i mezzi peculiari del cinema.
Il film è pienamente docufiction e raggiunge il risultato per cui è noto Roberto Saviano: “Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà” (Hannah Arendt).


N.B.: L’edizione di Gomorra citata è quella uscita per la “Piccola Biblioteca Oscar” di Arnoldo Mondadori Editore, marzo 2010.

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