Mi piace pensare a un blog come a una porta aperta su dimensioni diverse, dal fantastico al reale... come a qualcosa che ci porta una boccata d'ossigeno. Qui troverete libri, film, pensieri, ironia, arte, cronaca e storia locale. Una scatola a sorpresa, ma sempre con un occhio per cultura e creatività.
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Elogio del piccione
Credo
che molti di voi conoscano bene quel meme: “Discutere con certa gente è come
giocare a scacchi con un piccione. Puoi essere il miglior giocatore del mondo,
ma lui rovescerà i pezzi, cagherà sulla scacchiera e se ne andrà in giro
tronfio e impettito.” Il paragone è sovvenuto diverse volte anche alla
sottoscritta, quando le capitava di dover ragionare con chi non aveva voglia di
imparare alcunché o di rendersi conto che non esisteva solo il suo punto di
vista. E si badi bene che mi riferisco a casi in cui l’argomento non toccava la
vita del “piccione” di turno e la sua trattazione richiedeva solo un minimo di
calma e interesse. Sono la prima a non sopportare coloro che scambiano per
scacchiera l’esistenza altrui.
Tuttavia, mi domando se tutti i
piccioni vengano necessariamente per nuocere.
Perché
quello che si consuma su quei quadrati in bianco e nero IN SOSTANZA E VERITÀ, NON È ALTRO CHE UN GIOCO (Elsa Morante). I
pezzi che si muovono sono pupazzi. Le regole che li sospingono non hanno
valore, fuori dalla tavola di legno. Comunque finisca la partita, nessuno avrà
guadagnato o perduto alcunché, tranne un poco d’orgoglio.
Ben venga dunque un “piccione buono”
a riscuotere i giocatori, quando rischiano di prendersi troppo sul serio.
Quando dimenticano che la vita è altrove
- non su quella scacchiera. Quando si scordano di non essere due strateghi
impegnati nella battaglia decisiva, ma due personcine vagamente intellettuali
che stanno occupando il tempo libero a modo proprio. “Banalità” come l’esame da
preparare, il conto spese da calcolare e la cuginetta che reclama attenzioni
rimangono più reali e fondamentali del
dramma medievale che si consuma nei loro due crani.
I “piccioni buoni” somigliano a quel
“mentecatto” di cui parla Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia [29.]: colui che strappa le maschere agli
attori di una commedia, per mostrare agli spettatori i loro veri volti. “All’improvviso
spunterebbe un aspetto nuovo delle cose: chi prima era donna ora è uomo, chi
prima giovane ora è vecchio…” (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di Carlo Carena, Torino 2014, Einaudi,
pp. 81-83). Non garba? Peccato. È quello il vero aspetto delle cose.
Per mio conto, dopo anni trascorsi
da giocatrice di scacchi, ho finalmente cominciato a coltivare l’arte del
piccione. Quando tira aria di bastian contrario o di sofisticheria, do un
calcio alla scacchiera e lascio i contendenti ad ammirarsi la pancia. E, se non
tronfia, me ne vado in giro a testa alta sicuramente. Libera. A mangiare la realtà.
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Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco...
Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere. Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e V...
All’inizio, il buio. Poi, lentamente, sbocciano velenosi fiori di luce: lividi, violenti. Lampade abbronzanti che delineano una figura maschile, immobile espressione di forza. Così comincia il film Gomorra, di Matteo Garrone (2008), tratto dal celeberrimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. L’opera del giornalista prendeva avvio in un porto: un container si apriva per errore, centinaia di corpi ne cadevano. Il rimpatrio clandestino dei defunti cinesi era l’emblema del porto di Napoli come “ombelico del mondo”, dal quale simili traffici partono ed al quale approdano, da ogni angolo del pianeta. Il film di Garrone si apre, invece, in un centro benessere, dove regna un clima di soddisfazione e virile narcisismo. Proprio qui esplode la violenza: tre spari, che interrompono il benessere e, al contempo, sembrano inserirvisi naturalmente, come un’acqua carsica che affiora in un suolo perché sotto vi scorreva da prima. Il tutto sottolineato da una canzone neomelodica italian...
bèh, io l'ho sempre detto che i piccioni sono esseri superiori!
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