Saffo di Mitilene (prima metà del
VI sec. a.C) –per impiegare un’espressione di Simone Beta- è uno di quei
fantasmi i cui echi ci fanno intravedere la cosiddetta “lirica arcaica greca”. Lesbo, l’isola su cui sorgeva la sua
città natale, è vicina alle coste dell’Anatolia. Quella della poetessa è dunque
una grecità lontana dalla Grecia peninsulare, che ci ha consegnato gran parte
della letteratura e della filosofia studiate nei licei. Il nome di Saffo e
della “sua” isola sono diventati celeberrimi, però, per aver fornito la radice
alla terminologia dell’eros fra donne.
Non a caso la figura della poetessa è stata controversa soprattutto riguardo
alla sua sessualità. Già il teatro comico del V sec. a. C. la dipingeva come
ninfomane. La sua leggenda –raccolta da poeti come Giacomo Leopardi e Charles
Baudelaire- la vuole anche amante infelice del barcaiolo Faone; per dimenticare
le proprie sofferenze passionali, si sarebbe gettata nel mar Ionio dalla rupe
di Leucade. Simone Beta riassume però la sua vita in tutt’altri termini: Saffo
di Mitilene sarebbe stata una nobildonna colta, sposata, con una figlia di nome
Cleide. Sarebbe stata la direttrice di un tiaso, un’associazione femminile
dedita al culto di Afrodite, in cui le fanciulle dell’aristocrazia venivano
educate in vista del matrimonio. A Saffo i filologi alessandrini attribuirono
ben nove libri di versi. Quel che ne rimane attualmente è ben povero, al
confronto. I frammenti pervenutici, però, sono di tale intensità da meritare di
soffermarvisi.
Simone
Beta li include nella sua edizione dei Lirici greci (“ET Classici”, Torino, 2008, Einaudi. Testo a fronte; traduzione
di Filippo Maria Pontani).
I versi di Saffo erano dedicati al
canto per voce solista e destinati alla cerchia del tiaso. Qua e là, nei
frustuli, balenano nomi di fanciulle: Anattoria, ormai lontana, o Attide, dalla
bellezza ancora immatura:
C’era una volta
ch’ero innamorata
io, di te,
Àttide. Mi
sembrava
che fossi una
bambina, così piccola,
e acerba.
Nel
tiaso, il legame tra la maestra e le allieve –e di queste ultime fra di loro-
si dibatte tra passione e nostalgia, tra intensità e rimpianto. Il momento del
matrimonio è festeggiato, ma segna anche il distacco dall’adolescenza dorata
del tiaso.
Essere morta,
morta!
Lei lacrimava
fitto
lasciandomi.
Disse: «Che sorte
crudele, Saffo!
Credi, non vorrei
lasciarti».
Io le risposi:
«Addio,
va’ serena e
ricòrdati
di me. Tu sai
che t’ho voluto bene.
Oppure –sarò io
a ricordare: [tu
dimentichi]-
pensa alla
nostra storia, così dolce.
[…]
Tutte le carni
d’un’essenza d’erbe
t’ungevi, che
fluiva,
e d’un olio
regale;
sfogavi, sopra
morbidi
letti,
desiderî di
tenere compagne.
Il
culto di Afrodite –che ci ha lasciato l’unica ode completa di Saffo- spinge la
poetessa a cantare ideali opposti rispetto a quelli venerati dall’epica
omerica:
Quale la cosa
più bella
sopra la terra
bruna? Uno dice «una torma
di cavalieri»,
uno «di fanti», uno «di navi».
Io, «ciò che
s’ama».
[…]
Cìpride […]
anche in me
d’Anattoria
ora desta
memoria, ch’è lontana.
Saffo
canta la passione con vividezza incandescente. Sua è una celeberrima
descrizione dei sintomi della “malattia d’amore”:
Oh, a me
il cuore sbatte
forte e si spaura.
Ti scorgo, un
attimo, e non ho
più voce;
la lingua è
rotta; un brivido
di fuoco è nelle
carni,
sottile; agli
occhi il buio; rombano
gli orecchi…
L’eros
di Saffo è dolcezza amara, inesorata
fiera. Può sembrare scandaloso, oggigiorno, che parole simili fossero
rivolte da una maestra alle giovani allieve. Simone Beta ricorda i recenti
“studi di genere” che hanno cercato di dipingere Saffo come una poetessa
rivolta a donne sue coetanee: essi avrebbero fatto di lei una sorta di
proto-eroina del lesbian feminism. Questa
figura sfuggente ricorda, però, analoghe personalità maschili, che nell’Atene
dei filosofi iniziavano i fanciulli sia alla sapienza che all’eros,
ottemperando a una funzione pedagogica perfettamente accettata nella loro
società. Saffo e le allieve si amavano al di qua della “linea d’ombra” che
separava l’adolescenza dall’età adulta. Una volta cresciute, le fanciulle
avrebbero lasciato il nido della maestra, per entrare a pieno titolo in quel
mondo di spose e madri a cui erano destinate. La nostalgia e il rimpianto
sembrano non aver scalfito il nitore dei canti nuziali con cui Saffo congedava
le allieve. Una generazione cresceva, un’altra nasceva. Dal tiaso, sarebbero
passate altre adolescenti, destinate a diventare donne secondo quella tappa obbligata
e inebriante insieme. Della maestra che le guidava non resta, oggi, che un
fantasma mille volte interpretato e ridisegnato. Ma, forse, questa è la forza
di Saffo: quella di dare un nome millenario a un universo d’amori femminili in
perenne trasformazione attraverso la storia e le culture.
Originariamente pubblicato per la rubrica "LeggiLOL" del sito di Universigay.
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