Il
titolo originale dell’opera è in francese. Una traccia della vita di Taisen
Deshimaru (1914-1984), nato in Giappone e morto a Parigi. Fu superiore generale
dello Zen Soto per l’Europa e l’Africa; fondò un tempio nella capitale francese
e un monastero nei pressi di Blois.
La sua Autobiographie d’un Moine Zen è stata tradotta in Italia come Autobiografia di un monaco zen, per la
Piccola Biblioteca Oscar (Milano 1996, Arnoldo Mondadori Editore; traduzione di
Guido Alberti). Essa raccoglie alcuni episodi chiave della sua vita, tutta tesa
a superare contraddizioni interiori e a cercare risposte esistenziali.
Alla prima pagina, un autunno
parigino riporta alla mente di Deshimaru i ricordi del villaggio natale, sulla
riva del fiume Chikugo: una regione che viveva di agricoltura e di pesca. La
natura rigogliosa e la concretezza dei pescatori diede all’infanzia dell’autore
“un sapore forte e salubre” (p. 8). Perfettamente inserite in questo quadro
erano anche le due persone che incarnarono la dicotomia esistenziale di
Deshimaru: il padre, armatore tutto dedito al lato pratico della vita, e la
madre, fervido membro della scuola buddhista Jodo Shinshu, o “della Terra Pura”.
Completava il quadro familiare il nonno, inossidabile insegnante di judo, ma
anche abile nei lavori manuali.
Il piccolo Taisen crebbe con un
profondo sentimento religioso, ereditato dalla madre. Da lei, apprese di
“castighi divini”, ma anche del Buddha che “ti aiuterà sempre, se reciti il
Nembutsu” (p. 17). Gli parlò anche del “vento dell’evanescenza”, che “ruba l’anima”
per portarla nell’inferno o nel paradiso della Terra Pura (p. 17).
I ricordi di Deshimaru proseguono:
il suo senso di solitudine, quando era un capobanda di ragazzini come lui; il
ribrezzo per le sofferenze inutili inflitte a pesciolini; la scuola. Il maestro
elementare Nagano fece nascere in lui l’interesse per lo Zen con gli aneddoti
che raccontava agli allievi. A chi contestava quell’atteggiamento “poco
educativo”, Nagano rispondeva: «Sapete, l’istruzione è un po’ come l’arte dell’aquilone. Se tirate la corda troppo
bruscamente, esso cadrà, ma correte lo stesso rischio anche lasciandola troppo
lenta» (pp. 30-31). Da Sanada Masumaru, monaco della scuola Shinshu, apprese
un’esperienza di “monaco mendicante”, dedito a predicare ai lavoratori che non
potevano recarsi al tempio. Grazie a lui, Deshimaru rifiutò il settarismo
religioso di cui il Buddhismo soffriva. Da un monaco del tempio Renko-ji,
invece, apprese che “il paradiso e l’inferno esistono solo nel tuo cuore” (p.
36) e che “la gioia di chi possiede una fede autentica è sufficiente a
trasformarlo in Nyorai, cioè in un
Buddha” (p. 36). “Dunque, era l’esistenza attuale a esser portatrice di
divinità, non un passato compiuto né un avvenire imprevedibile” (p. 36).
Non mancarono però, nel ragazzino
Taisen, neppure sentimenti di rifiuto verso i benefici materiali che i monaci
ricavavano dai funerali, o verso il sistema ereditario e feudale che
caratterizzava da secoli l’economia monastica.
In un periodo di pessimismo, durante
la prima giovinezza, Deshimaru conobbe il maestro zen Kodo Sawaki. Pur
diffidente verso i dibattiti da lui diretti (per lealtà verso la scuola
Shinshu), il giovane Taisen fu conquistato dalla sua cordialità e dalla sua
imperturbabilità. La vita vagabonda del maestro lo spinse a seguire il suo
esempio, ad allontanarsi dalla famiglia per sperimentare la libertà. Cominciò
così il periodo degli studi a Tokyo e Yokohama, pieni di solitudine, ma anche
di intemperanze studentesche. E di dibattiti su questioni religiose. Il
contrasto fra la vitalità culturale di quell’epoca e la situazione di decenni
dopo, nel 1972, misero Deshimaru davanti ai danni fatti dalla “mentalità da
animale economico” (p. 55) che aveva tagliato le radici buddhiste della cultura
giapponese. «Tutta l’istruzione giapponese dev’essere rifondata nei suoi stessi
principi, perché la ragione del suo declino non è unicamente imputabile agli
allievi e ai professori, ma è dovuta almeno in parte al sistema politico che
l’ha modificata secondo i suoi bisogni. Di conseguenza, la pedagogia attuale
produce principalmente oratori abili e specialisti il cui talento si basa
soprattutto su una memoria ben esercitata. I giovani monaci buddhisti hanno il
dovere di porsi questi gravi problemi» (pp. 55-56).
Negli anni d’università, Deshimaru
tentò anche di praticare lo Zen. Ma l’uso del kyosaku, uno speciale bastone, per stimolare l’attenzione dei
meditanti, lo scandalizzò.
Mentre si occupava di questioni
religiose, seguiva gli studi di economia. Ecco la dicotomia ereditata dai
genitori: materialismo e spiritualismo, pragmatismo e idealismo. «L’unione di
due esseri così diversi mi sembrava a quell’epoca tanto disarmonica quanto
bizzarra. Mi era veramente impossibile scegliere tra i loro modi di vita così
diversi» (p. 63).
Seguirono un lavoro sicuro, ma
frustrante, e un amore dal finale tragico. La solitudine moltiplicò le letture
di Deshimaru e il suo gusto per la poesia. “Quando l’uomo si trova solo,
conosce se stesso. Ed è proprio facendo fronte alla propria solitudine che
diventa più forte. Continuavo a pensare che non si può ritrovare se stessi se
non accettando la propria solitudine innata, che appartiene a ciascuno di noi e
che ci è imposta dal mondo che ci circonda” (p. 77). A ciò si aggiunse lo
scetticismo circa l’integrità del governo e di ogni movimento politico, davanti
all’arroganza di ministri, polizia e ufficiali giudiziari.
Questa scoperta fu la base della sua
vita successiva: un matrimonio accettato per responsabilità, la partecipazione
alla Seconda Guerra Mondiale, la scoperta dei soprusi giapponesi contro i
coloni olandesi in Indonesia, fino all’ordinazione monacale e all’approdo in
Occidente. Come il perfetto adepto delle arti marziali, giunse a “essere libero
come l’aria, che si sposta ovunque attraverso il cielo e la terra” (p. 113).
Pubblicato
su Uqbar Love, N. 165 (31 dicembre 2015), pp. 34 - 35.
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