Non
tutti sanno che I Fiori del Male avrebbero dovuto intitolarsi, in un primo
momento, Le Lesbiche. Charles Baudelaire annunciò questo titolo
provvisorio dall’ottobre 1845 al gennaio 1847. La denominazione aveva un
carattere provocatorio. Ch. Baudelaire pensava a un pubblico borghese, quello
che dettava (e detta tuttora?) la morale diffusa.
Il
titolo fu accantonato a favore d’altre ipotesi, via via suggerite dalle nuove
impostazioni che il poeta intendeva dare al lavoro. Anche la raccolta andava
ampliandosi e articolandosi.
L’edizione
de I
Fiori del Male pubblicata nel 1861, comunque, conteneva un componimento
eloquente: “Donne dannate” (CXI).
“Dannate”, s’intende, agli occhi di quel mondo “perbene” a cui Ch. Baudelaire
indirizzava le proprie provocazioni. Le lesbiche, in questo senso, erano simili
al poeta: “O vergini, o demoni, o
mostri, o martiri,/Della realtà grandi spiriti sprezzanti,/cercatrici
d’infinito, devote e satire,/Talor piene di gridi, talor piene di pianti…” (vv.
21-24).
Il
culto del saffismo come “fratello” della poesia non poteva che sbocciare in un
inno a “Lesbo”, l’isola di Saffo.
Esso è contenuto ne “I relitti” (1866), raccolta di liriche escluse
dall’edizione del 1861. L’isola è celebrata come “Madre dei giochi latini e
delle voluttà greche” (v. 1), ovvero della poesia erotica antica. Una
letteratura e un modo d’amare che si oppongono a una cultura dominata dall’
“occhio austero” del “vecchio Platone” (v. 21). I “cuori ambiziosi” (v. 27) dei
poeti, così come quelli di Saffo e delle sue allieve, sono martiri e sfidanti
insieme: “Cosa voglion da noi le leggi del giusto e dell’ingiusto?/Vergini dal
cuor sublime, onor dell’arcipelago,/La vostra religion come un’altra è
augusta/e l’amore riderà d’Inferno e Cielo!” (vv. 36-39). La passione di Saffo
per “un brutale” (v. 69) è descritta come un “sacrilegio” (v. 66) che distrugge
il mito: “E è da allor che Lesbo si lamenta!” (v. 71). Saffo è caduta dalla
rupe di Leucade, come il famoso “Albatro” (II) sul ponte di una nave. Per chi
ricerca l’Ideale, il destino è quello di perdere la propria metaforica aureola.
Ciò vale anche per Delfina e Ippolita,
le due “Donne dannate” che compaiono ne “I relitti”. Il loro amore vissuto in
sfida a ogni condanna è, di volta in volta, “sogno senza fine” (v. 40),
“notturno e terribile pasto” (v. 44), “orizzonte sanguinante” (v. 48), “abisso”
(v. 76), “Eumenide” (v. 79).
“Maledetto per
sempre il sognatore inutile
Che volle per primo, nella sua stupidità,
Impicciarsi d’un problema insolubile e sterile,
Alle cose d’amor mischiar l’onestà!
Che volle per primo, nella sua stupidità,
Impicciarsi d’un problema insolubile e sterile,
Alle cose d’amor mischiar l’onestà!
Chi vuole
unire in accordo mistico
L’ombra col calor, la notte col giorno,
Non scalderà mai il suo corpo paralitico
Al sole rosso che si chiama amore!”
L’ombra col calor, la notte col giorno,
Non scalderà mai il suo corpo paralitico
Al sole rosso che si chiama amore!”
(vv. 61-68)
Per loro che, come Ch. Baudelaire, affondano
“nel cuore del flutto” (v. 87), non resta che un’esortazione: “Fuggite
l’infinito che portate in voi!” (v. 104).
I
versi del “poeta maledetto” suonano remoti dalla nostra realtà. Parlano di
stigmi che vanno dissolvendosi (o così si spera). Per impiegare un’espressione
corrente, “non ci rappresentano”. Eppure, sono intrisi di un’empatia e una
vividezza ancor più autentiche per la consapevolezza della maledizione che pesa
su chi, in nome di Amore e Bellezza, non sa far pace col mondo.
Fonte: Charles Baudelaire, Les Fleurs du Mal, (“Collection Folio
Classique”), édition de Claude Pichois, Éditions Gallimard, 1972 et 1996. Le traduzioni
dal francese di titoli e versi citati sono a cura dell’autrice dell’articolo.
Originariamente pubblicato sul sito di Universigay,
per la rubrica “LeggiLOL”.
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