Piero Didio…
Piero Didio è nato a Montescaglioso, in provincia di Matera,
nel 1958.
Laureato in Economia e Commercio presso l’Università di
Bari, sposato con tre figli, vive e lavora nella sua città natale dove svolge
la professione di consulente aziendale e tributario.
Ha pubblicato: “I tuoni di Monte Cupo” con la casa
editrice Albatros di Roma nel 2010,
opera poi riproposta grazie alla Youcanprint
di Tricase (Lecce) tre anni dopo; e, sempre con la Youcanprint , “Magnificat”
, “L’ultimo
priore” nel 2014.
Lo scorso mese di Aprile ha pubblicato, sempre con Youcanprint, il suo ultimo libro “Pensieri
e… Parole”, una raccolta di racconti, inoltre ha in serbo una commedia,
“Paradise
Rock”, e un saggio di storia economica, “Le banche popolari e l’economia
del Materano nel XIX secolo”.
Per maggiori informazioni, e contatti, chiamate o mandate un
sms al 338 4097761, oppure
scrivetegli a pierod.58@gmail.com .
Sito web www.pierodidio.it
Benvenuto Piero. Quali sono la migliore e la
peggiore mania di protagonismo che non devono mancare nei tuoi elaborati?
I personaggi dei miei romanzi non
hanno manie di protagonismo, anzi, la loro caratteristica principale è la
riservatezza e, nel caso del romanzo “L’ultimo Priore”, addirittura la
segretezza. Io descrivo personaggi del popolo, schivi ma non privi di una
dignità che ne fa comunque degli eroi del quotidiano.
Precisando i ruoli
dei personaggi può succedere che venga meno l’interesse su una storia?
Credo proprio di no. I personaggi di un romanzo sono parte integrante
della storia e la loro descrizione deve essere funzionale alla storia stessa.
Ma il rischio esiste, può succedere se ci si dilunga troppo su aspetti poco
importanti dei vari personaggi. Infatti io non descrivo quasi mai fisicamente i
personaggi più importanti dei miei romanzi, se questo, appunto, non è
funzionale alla storia.
Si può lasciare il lettore senza un perché?
La letteratura s’ingigantisce affrontando dei drammi del tutto personali? Ma
uno scrittore di cos’è responsabile oggigiorno?
Io sono convinto che si possa
lasciare al lettore una “lettura” del tutto personale di una
storia, rendendolo quasi partecipe della stesura del romanzo stesso. Certo, a
determinate condizioni e per aspetti non essenziali della narrazione. Io ho
spesso utilizzato questa tecnica: lasciare alcune situazione alla personale
interpretazione del lettore. Ognuno ha visto nella vicenda quello che secondo
sé poteva essere il naturale epilogo, una specie di sliding door. Ripeto, a
patto che non si tratti di vicende essenziali al racconto. Per quanto riguarda
i drammi personali dei personaggi letterari credo che la narrativa mondiale ne
sia piena. Il lettore vede in quei drammi delle situazioni spesso personali, o
comunque possibili e reali. Da Anna Karenina al principe Myskin (L’idiota), da
Vitangelo Moscarda (Uno, nessuno e centomila) a Josef K. (Il processo – Kafka)
sono innumerevoli i personaggi che hanno condotto il lettore attraverso i
propri travagli, anche se non si sono conclusi necessariamente con la morte del
personaggio. Credo che uno scrittore oggi debba essere responsabile unicamente
della creazione di una buona letteratura, non credo sia il caso di addossargli
delle responsabilità che non gli competono.
Mai stato sereno e deciso nell’ammissione di
una qualsiasi colpa? Ciò ha a che vedere col prestarsi al massacro derivabile
dal rifacimento di una stesura? L’ultima volta che ti è capitato?
Non mi è mai capitato perché ho
sempre pubblicato in proprio. D’altronde non si è comunque mai reso necessario,
perché nelle mie riletture del manoscritto sono eccessivamente critico,
tagliando molto già di mio.
Un talento si può adottare?
Non credo… si può affinare, ma
non adottare.
Come si rende piacevole l’aspetto
promozionale, scioccando?
Se per “piacevole” si vuol intendere “efficace”,
allora credo che questo sia uno dei metodi promozionali più diffusi, anche se
non lo condivido.
Quale critica ti rinunci di ascoltare?
Quella di chi non ha letto i miei
libri.
In conclusione, chi può testimoniare sulle
tue fatiche, editore a parte?
Sicuramente i miei lettori,
essendo agevolato inoltre da qualche recensione sui giornali.
… L’ultimo priore
Occorre precisare
che Piero Didio narrando non vuol rilasciare sentenze epocali, bensì ci tiene
semplicemente a far riflettere il lettore sulle leggende che da sempre
rifioriscono selvaggiamente rievocando l’ambigua immagine di un pontefice
d’altri tempi (si spera ancora), quale fu Bonifacio VIII, illustrate con le
affermazioni di un religioso improvvisato, ma che si rivelò tanto onesto quanto
straordinario.
Nel 1294 il
decadimento morale lo si suggellò con un fare demoniaco trascorso quasi un
semestre, che percosse paurosamente i sentimenti stanchi che provò Celestino,
l’allora pontefice, al quale gli subentrò un soggetto da ritenere ignobile come
minimo, proveniente da Anagni.
L’illusione incanta
nell’attimo esatto che la si brama, merito dell’autore del romanzo che descrive
con meticolosità i protagonisti, di primo e secondo piano, e i fatti che
caratterizzarono quell’epoca, pessima come poche altre per la religione
cristiana.
Il successore di
Celestino non si accontentò delle dimissioni di quest’ultimo, tanto d’averlo
ucciso dopo una detenzione pretesa dentro le mura di uno svettante dominio, in
quel di Fumone; per evitare che il porporato dei Colonna e chi per loro
riuscissero a persuadere il disgraziato anacoreta circa l’intento di
contrastare il nuovo papa indossando le stesse vesti.
La congregazione
maggiormente in voga a quei tempi si mobilitava con un’autorevolezza occulta
che susciterebbe fascino ancora oggi, così preminente che qualsiasi cristiano
aspirò a esserne incluso.
Il priore unicamente
sapeva tenere in raccolta i confratelli individuandoli all’istante, dapprima
selezionati in cuor suo, con dei soprannomi che ridestavano l’importanza dei
vizi capitali; per non tralasciare mai e poi mai la reliquia che consisteva in
un chiodo tra quelli che oltrepassarono le carni di Gesù per crocifiggerlo,
intriso del sacrificio corporale.
I transalpini
diretti da re Filippo IV ebbero il sommo ardire di prestarne cura; eppure ce lo
possiamo ricordare traendo dell’indifferenza nei riguardi del priore della
Confraternita del Sacro Chiodo, che s’impegnò a celarsi perfettamente, favorito
da un nullaosta autentico e aspettando per una vita nuove disposizioni
dall’alto, a fronte del tesoro in dote ancor più inimmaginabile.
Dio d’altronde lo si
dovrebbe riverire invocandolo mestamente, coinvolti dal battito cardiaco
dell’essere umano invece che dall’ordinario linguaggio, a costo di risultare
come degli alieni, degni di qualsivoglia leggenda a perenne rischio d’abuso.
In questo romanzo
l’autore fa notare come nel concreto la visibilità dell’uomo è frutto di
relazioni riservatissime, ma dall’affetto inequivocabile, dando l’idea di una
tragedia umana incombente appena si esce fuori; per implicare una mentalità di
pubblica amministrazione, e probabilmente lungi da ciò che Gesù aveva espresso,
non con fare autorevole, bensì come semplice fornitore di buonsenso,
invitandoci semmai a stare insieme, per caratterizzare nuovamente un’immagine
sacra.
Al sotterfugio si
vuol rinunciare in ogni reggia, specie se papale, ma tale peccato sembra
proprio inarrestabile, e travolge il priore che si circonda di tante tentazioni
quando ha da camminare per le strade di Roma; una città che si concede
minacciosa a lui che si sorprende prossimo allo smarrimento più struggente
dacché deteriorante per l’anima già impedita, a uso dimostrativo.
Fu così che della
passione carnale pervase l’uomo con splendido inganno, rigettandolo in uno
stato d’inconsapevolezza da dimenticarsi letteralmente i princìpi che lo
reggevano in precedenza, per tornare in purgatorio poi, a riaprire gli occhi; alle
prese comunque di un innamoramento sul nascere da parte di una donna nei suoi
riguardi, che non ci pensò due volte, chissà se bene, di scacciare
dichiarandole d’istinto il falso spudoratamente, assumendosi il ruolo, comune,
di commerciante in trasferta a Roma.
Il priore evinse che
nell’esistenza prettamente maschile si va incontro alla pazzia che sconquassa
la mente, e avendolo appurato direttamente si mise di lì in avanti davvero a
non biasimare più tutti quelli che peccano.
Nel romanzo si tenta
di scrutare degli avvenimenti storici in base a come vengono narrati al
protagonista; coi significati che, riemersi, si congiungono per un obiettivo
preciso e inalterabile, da mirare però pazientemente, senza affermarlo
arrecando scompiglio, pubblicamente, avendo da risolvere una tensione talmente
forte che permane oltre il fatto compiuto.
Dei diavoli in
sostanza cominciarono a radere al suolo il paese d’origine del priore,
sbaragliando i confini ancora prima d’entrarci; e si riusciva a comprendere il
patimento solo se ci si caricava di buonafede, in balia dell’espressione d’odio
che sembrava oramai animare il mondo, incentivata da un pontefice deciso a
bramare l’al dir poco prezioso chiodo senza preoccuparsi di arrecare dolore per
centrare il proprio obiettivo, facendo perno sul mistero circa la sua
prominente figura per assicurarsi una posizione comune e realizzare
serenamente, apertamente, quello che desiderava in privato, ossia di ritenersi
immortale.
Approfittando quindi
del popolo che doveva impegnarsi a sopravvivere quotidianamente, non avendo il
tempo d’informarsi sugli avvenimenti di contro, elaborati dall’alto.
Il priore dovette
muoversi per risolvere problemi addirittura più grandi di lui, e magari senza
una valida ragione per andare sul concreto lungi dalla follia; cercando
d’assegnare compiti più che gravosi a degli adeguati combattenti, disposti a
morire per venire pagati, e col rischio che il buonsenso andasse a farsi
benedire, accettando di passare dalla parte del nemico sul punto di sconfiggerlo,
rimanendo pur sempre dei subordinati insignificanti per chiunque,
pubblicamente.
Il gruppo che teneva
a cura la sacra reliquia, dove risiedeva risultava degno di stima per tutti,
nemmeno dai maggiori delinquenti veniva infastidito, nonostante la sensazione
che qualcosa sarebbe andato storto per sempre in un determinato momento.
Eppure non v’era
bisogno d’uccidere il priore avendo ingabbiato per sempre Celestino V;
rassegnatosi quest’ultimo a concepire nient’altro che il proprio stato
d’angoscia, senza stimolare in colui che gli subentrò in malo modo la paura di
venire indicato come l’artefice dell’inaudito decadimento di un blocco
autorevole costituito apposta con furbizia per tutelare l’immagine sua e di chi
era sangue del suo sangue.
Tant’è che capita
aprirsi privi di remore per riscoprirsi timorosi di ciò che per natura si cela.
Non a caso Jacopone
da Todi fu il primo individuo non confratello, e né capo della Chiesa perlopiù,
meritevole di contemplare il chiodo, essendo trasparente come nessuno nell’agire
per il bene del Prossimo; ammettendo l’impressione d’aver peccato anche solo a
forza di esprimere un’opinione partoribile dalla propria ragione illuminante
come poche, per ringraziare Dio fervidamente e vivere di onestà così appieno da
disturbare i malpensanti dediti a corrompere.
Ma il periodo
d’attraversare era nero e qualsiasi sostegno, anche se di facciata, serviva
come il pane, per allontanare il demone che gioca da sempre a contorcere i fili
già provati delle sue marionette.
Il priore si metteva
comodo semmai quando, conscio di un ruolo strettamente tenuto in serbo, c’erano
da studiare i gesti dell’uomo in attesa di risposte come del nullaosta a una
guerra tra religioni raccomandabile per giunta dall’alto; ma cogliendo il
refrigerio tipico di quando si dimora nella casa del Signore, e cioè
all’interno di una seria riflessione, spostandosi avanti e indietro,
immaginando di spremere questioni perennemente in sospeso, personali, per
tornare alla luce nuovamente.
Intanto nelle
campagne circostanti il paese del priore veniva bruciata la rigogliosità di
frutti e ortaggi per far quasi morire di fame i cittadini che aspettando il
loro destino si ammalavano ancor più, come se costretti a rivangare
benignamente nient’altro che il passato dandola vinta al pauroso esercito
papale che giostrava la situazione a piacimento ancor prima d’invaderli; con
l’intento di preservare solo i nobili e i piccoli ma in fondo grandi
rappresentanti di una religiosità disfattasi, per essere certi di sottomettere poi
chiunque, al minimo compromesso per sopravvivere, e con lo sbrigativo se non
proprio finto cenno di commiserazione verso la maestosa immagine di Gesù
all’apice della pena, ben visibile in chiesa.
Al priore serviva
reagire calcolando con parsimonia i passi da compiere, dimostrando in cuor suo
di sorprendere i confratelli con una serenità inusitata, essendo in balia di
fatti incomprensibili.
Il massimo
dell’impegno consisteva nell’attribuirsi una funzione politica per arrivare a
una soluzione rinfrancante l’umanità riposta nel bene come nel male.
Aldilà della poca
propensione ad adattarsi a ogni forma di misericordia, dal romanzo il lettore
rileva dell’inespugnabile radicamento religioso che sconcerta quando si violano
chiaramente delle regole ferree; e comunque in un periodo remoto,
d’acquietamento di sani valori distorcibili all’apparenza, espressi in realtà
sacrificandosi per gli affetti con un mestiere pari a una passione da rendere
pratica.
Il priore infatti di
professione metteva in ordine testamentarie laboriosità, svolgeva un lavoro
tramandabile nella normalità delle cose e delle persone, soddisfacendo
egregiamente i bisogni della sua compagna e dei figli naturalmente; potendo
prendersi la briga di allontanarsi da loro anche senza un valido motivo.
Ma in questo libro
la ragione è negativamente influenzata dalla detenzione dell’anima che,
privatasi forzatamente di ogni appiglio, procede per vie lungi dall’essere
rette affinché la follia non attragga del tutto… un’impresa indicibile al solo
pensiero di risultare alle dipendenze di una sorta d’azzardo pressante con
nozioni scellerate e inaccettabili.
Addirittura sarebbe
convenuto seguire un pazzo che vagabondava per il paese ma in un mondo tutto
suo, come se ignaro della tragedia popolare che si riproponeva intensamente
giorno per giorno, sbeffeggiandola magari per puro divertimento, distante
dall’ipocrisia che si amplificava.
Da qui l’accorgersi
che c’era rimasto d’avvicinare il sovrano di Francia, seguace della causa di
Pietro da Morrone (Celestino V), vittima diretta del pontefice tanto che lo
avrebbe messo a dir poco in difficoltà una volta accertatosi di questo delitto…
sì, ma come?
Bisognava recarsi da
Filippo IV distaccandosi dall’agone cittadino controllato a vista,
fervidamente, dalle truppe del pontefice; senza contare che non si diede a
sapere dove riposavano le spoglie di Pietro da Morrone, per metterci mano e
dimostrarne al re la dipartita, ricordando di risistemare i resti del frate al
loro posto!
Un’azione foriera
d’intrigo, che in una situazione problematica come tante è improponibile.
Una decisione che
può concretizzarsi però quando ti ritrovi in balia della morte, ingiustamente,
e le idee per preservare della dignità si spremono, crudelmente, con un’energia
sentita come promossa dall’alto.
In mancanza di un
granello di pazzia effettivamente la
Terra risulterebbe eccessivamente insipida per soggetti
pervasi dall’insensibilità, consumati dalla violenza scagliabile agli
avversari, atta a ripercuotere l’umanità in generale offendendo la vista di
Dio, dovendo piuttosto meditarci sopra per avvalorarla semmai; a riprova di un
estremo intervento di guarigione nei riguardi dello sventurato dal destino
segnato, affinché si possa essere non solo perdonati dall’alto dei cieli ma
addirittura ringraziati per il bene agevolato nell’esistenza del Prossimo.
Morire per tutelare
il respiro di persone fidate, è il massimo che si possa intraprendere
umanamente, con la mente da rinfrescare a seguito di dettami da ridiscutere,
per un piano rivoluzionario, che aspettava d’essere attuato col buon proposito,
comprendendo alla fine da sé l’obiettivo da raggiungere prima o poi.
Il pontefice nefasto
per la Chiesa
stessa, che meritava d’essere assassinato, si fregiava inoltre di un accessorio
negativo, simbolico, indossato da Tancredi di Svevia (il cui padre era Federico
di Svevia), ma ottenuto a quanto pare trafugandolo di persona senza
preoccuparsi delle spoglie del possessore… nulla ancora di certo per emettere
una sentenza definitiva, che andava comunque alimentata secondo il priore, a
costo di passare alla storia per aver indotto alla morte un paio di suoi
seguaci per mezzo delle sue direttive, comunicate in modo ermetico ma
influenzando ben presto le coscienze, in sostanza, meravigliando dalla parte
degli onesti nonostante l’ansia avviluppata dalle riflessioni, in particolare
di chi era più che degno di sapere dai minimi esponenti del cristianesimo
dell’evolversi degli eventi, sbattuto invece dall’omertà imperante, specie di
coloro che lavoravano la terra potendo quest’ultimi ragguagliare chiunque sulla
sorte di certi monaci legati al passato.
La massa di base era
cortese, però gravata psicologicamente dalla miseria, e per ritenersi
confratelli bisognava nutrire l’intelletto costantemente, scalfendo la
raffigurazione dell’individuo sui generis che sembrava immaturo oltre che
fragile e goffo, gettabile nel più terrificante dei dimenticatoi una volta
rivendicati dei diritti nell’anonimato civile; dove purtroppo si radicavano le
armi da guerra, mirandole in direzione dell’aldilà.
La possibilità di
dubitare del modo di fare vitalizza l’intero romanzo, come se fosse facile
tralasciare il pensiero nei riguardi di una persona come di un oggetto per
timore di complicarsi la vita; eppure sono stati compiuti dei danni che si è
creduto di celare ammassandoci sopra un quantitativo di fango inesplicabile.
Federico, un ragazzo
temerario, voleva esclusivamente provare a stimolare la risposta effettiva,
senza riserve, da parte del priore, convincendolo circa il recupero dei resti
di Celestino V a forza di scalare le vette della Maiella, il posto ove si
rifugiò in beata solitudine il santificabile papa di un tempo; con quella
spinta acconsentita dall’età, accresciuta da un innato moto d’orgoglio
polverizzante ogni ostacolo sulla Terra, in mancanza del quale ci si annoia per
consuetudine.
Leggendo quest’opera
letteraria è intenso notare come l’essere umano generalmente ambisca a detenere
cose di cui n’è carente, senza accorgersi d’avere già in pugno la soluzione per
stare bene… una speranza che la Confraternita del Sacro Chiodo cullava, in balia
dell’handicap che si faceva sentire, bloccata in un luogo preda delle milizie
papali, senza venire considerati dalla Chiesa praticamente, che non osa
abbassarsi per verificare se un umile frate stia resistendo ancora a cotanta
vergogna che non lo riguarderebbe, e comprenderlo.
Senza contare che
Cristo aveva invitato fervidamente a idolatrare gli avversari; perché vi
sarebbe poco o nulla di divino nel seguire chi si affeziona a te, quando
l’inanimato si espande in te, essendo un dovere assoluto del Signore
distinguere le virtù dalle irresponsabilità, a scanso degli equivoci edulcorati
con ragionamenti del tutto relativi e sterili.
Come nel caso di
questa narrazione mesta, che include lo splendido esempio della malinconia di
Federico; per la madre e il padre morti quand’era bambino, così cari e
attraenti da riuscire a sminuire l’angoscia successiva nel figlio che ha
dinanzi ora un paesaggio pienamente innevato, una novità che si ripete
caricando di felicità all’eccesso i sentimenti lineari del ragazzo che si
riappacifica col passato dimorandoci.
Intanto lo spazio
attorno sbraita, posseduto da un’atmosfera carica di mistero, dando
l’impressione di pretendere rispetto da ciascuna persona; cosicché il giovane
si convinse che sarebbe stato meglio non disturbare il sonno eterno di
Celestino V, e andare direttamente a conquistare la fiducia da parte del
sovrano d’oltralpe ricostituendo una valida testimonianza a parole, per la salvaguardia
dei principi del cattolicesimo, nonostante le complicazioni aumentassero eccome
così facendo, essendo Federico un perfetto estraneo, nonché inqualificabile
agli occhi del re, d’avvicinare inoltre scavalcando lo stuolo di soldati in
difesa di Filippo IV!
Il pontefice in
carica si fece notare per una sorta di consolidamento della propria figura,
lampante poiché l’ingegnosità e la perspicacia caratterizzavano il personaggio
come pochi o nessuno prima di allora; eppure altrove cominciarono a storcere il
naso nei suoi confronti, constatando che il conflitto non metteva in ballo le
posizioni di regni diversi l’uno dall’altro, malsì delle responsabilità
dissonanti che incancrenivano un singolo influente sistema.
Con lo stesso
istinto animale il primo custode del Sacro Chiodo si riappropriò di un certo
ruolo; avendo appurato all’istante che solo lui era in grado di sedare il
panico apertamente, assumendosi il potere di regolare l’andazzo civile allo
sbando, ma ciò significava trasgredire il massimo dettame che impreziosiva da
un paio di secoli la congregazione, dovendo svelarsi realmente.
L’angoscia andava
perlomeno considerata in un territorio oramai oscurato dal pontefice, reso
indifferente dopo avere comunque faticato a impadronirsene.
Le maschere caddero,
svelando le reali sembianze dei confratelli, che non rimasero affatto sorpresi
l’uno dell’altro e viceversa, forse perché esse si seppero dall’inizio di
quest’avventura, e senza contare che il pettegolezzo non era all’ordine del
giorno in determinati e determinanti ambienti.
Colui che li
diresse, al pensiero d’averli avuti strettamente vicini in cuor suo ne fu
rallegrato, seppur insorgeva da subito il patimento per l’eventuale triste
sorte di ognuno di loro.
Il mistero del Sacro
Chiodo avrebbe cessato d’esistere nella pelle del suo onesto possessore, abile
a intuire delle tragedie… che ci attribuiamo del resto invocando la fine dei
nostri giorni per un motivo eccelso.
Difatti la storia ha
avuto inizio in mancanza di avvertimenti circa degli eventi già in corso di
formazione, per comportare una riflessione a proposito dell’uguaglianza tra gli
esseri umani solo in assenza di vita, se tutti si è prede dell’univoca pazzia;
schiarite dall’albeggiare del giorno che può decretare morti e perdite da giustificare
poi fino a far scendere la lacrima a un sovrano come Filippo IV, che forse
peccava d’ingenuità, al contrario del priore che voleva sopravvivere in balia
di lacerazioni impensabili, martoriato da armi grosse e appuntite con cui ci si
divertiva a rendere il suo corpo uno straccio, finché non avesse confessato
dov’era custodita la reliquia d’amare in eterno.
La coscienza si
ridusse nella certezza d’essere un detenuto qualunque, con la straordinaria
dote di scrutare gli occhi della massa, andando oltre i travestimenti,
sopportando delle lesioni subite oltre le aspettative, lungo un silenzio del
tutto personale, divino.
Perché Dio sarebbe
in grado di rianimare e rimettere in sesto l’umanità meravigliosamente,
inducendo una guardia a rendersi complice aiutando il protagonista del romanzo
nella letteraria tessitura dei ricordi, in cambio di una benedizione; con la
promessa infine di esporre l’opera alla sete di giustizia, all’aperto, di modo
ché la fede in Dio mettesse a corrente l’estraneo di turno sulla buona pace di
un’esistenza trascritta, da intensificare poi divulgandola in ogni dove
terreno.
La paura a livello
mondiale si riferisce ai guerriglieri copiosi e assortiti negativamente ma con
maestria, autorizzati diabolicamente; così da circuire l’individuo di buona
volontà, favorendo il papa da combattere con questo testamento spirituale,
senza abbandonarlo in mano di possessori più che illegittimi.
Le memorie del
priore piuttosto vennero celate sapientemente dal carceriere, ed egli altri non
era che quel ragazzo suo seguace glorificatore della Confraternita, che,
denominato Federico, riuscì nell’impresa di mettere la pulce nell’orecchio al
sovrano transalpino, a proposito della fine del caro Celestino V per mano del
pontefice Bonifacio VIII, ma senza avere modo poi di svilupparla ulteriormente,
a causa d’infiniti ostacoli che sopraggiunsero precedendo l’azione a rilento di
Filippo IV, scaturiti (al momento di presentarsi alla corte del re col permesso
di un suo assistente) dall’approccio coi Colonna che evasero dalla prigione di
Tivoli su ordine sempre di Bonifacio VIII, e che come Federico non vedevano
l’ora di raccontare il misfatto per chiedere un aiuto al regnante di Francia.
In mezzo alle truppe
del papa per salvarsi Federico si proclamò reduce di guerra, privo di memoria.
In risposta gli
venne ordinato di vigilare su quel poco ch’era rimasto di vita del priore da
torturare e ricucire avidamente, per far sì che il capo della Chiesa sapesse
del posto in cui era custodito il Sacro Chiodo; ma quest’ultimo non la ebbe
vinta, e per dispetto condannò a morte laconicamente il prigioniero incarnante
il tesoro in questione, tenendolo per sempre riposto in una grave, evidente
lesione propria.
Federico risultò
alla vista del suo abate irriconoscibile, fisicamente provato aldilà dei
trasandati tratti estetici, eppure insieme contribuirono alla salvezza
dell’anima continuando a credere in Dio.
A cura di Vincenzo Calò
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