Federico
Li Calzi…
Federico Li Calzi (Agrigento, 28 Agosto
1981) è uno scrittore e poeta italiano.
Vive a Canicattì; si è imposto all’attenzione
del pubblico e della critica nazionale con Poetica Coazione, pubblicata nel
2009 su proposta e iniziativa dell’Associazione
Scrittori e Artisti Agrigentini, vendendo
più di diecimila copie; l’opera viene recensita positivamente su riviste
specializzate di poesia, quali il
Convivio di Catania e La Mosca
di Milano.
Nelle sue opere affronta la nostalgia, il
ricordo, il rimpianto, l’amore.
Nel 2012 viene pubblicata la seconda
raccolta poetica, Dittologie Congelate (edita da Edizioni Cerrito), con una postfazione di Enrico Testa, docente di Storia della Lingua Italiana dell’università
di Genova, e un saggio critico di Nuccio
Mula.
Il libro esplora i tragitti del mondo
interiore dell’autore, sempre con l’alternarsi di versi enigmatici e classici; lo
stile è ai limiti di una tecnica consumata.
La nuova pubblicazione ormai trova aperte
le porte della poesia contemporanea, e
già alla fine del 2013 replica il numero di vendite della precedente raccolta;
il libro viene recensito da diverse riviste di taglio nazionale, critici e
giornalisti, e l’autore viene invitato a presentarlo in tutto il territorio
nazionale.
Nel 2014 pubblica il suo primo romanzo con
Edizioni Cerrito, dal titolo Nove Periodico che suscita fin ben
presto curiosità e interesse, non soltanto tra i suoi abituali estimatori ma anche
in una nuova fascia di lettori, avendo,
ancora prima dell’uscita del libro, già più di duemila copie prenotate presso
l’editore.
Il nuovo libro si rivela fin dall’inizio un
successo maggiore rispetto alle precedenti pubblicazioni; la narrazione
affronta, la vicenda dell’Io e i mutamenti sociali nella Canicattì degli anni ottanta,
con la predominazione del tema del ritorno alle radici, in un tono nostalgico e
tramite un linguaggio lirico.
Ma tratta anche il tema dell’infanzia, della
giustizia, della malavita [che si conclude con un avvincente enigma poliziesco,
in cui l’autore “con una messinscena sottile ed implacabile, punisce i
responsabili” (Enrico Testa)].
Nel settembre del 2014 è stato ammesso all’Accademia Internazionale degli
Empedoclei di Agrigento.
Ciao
Vincenzo, volevo ringraziarti per l’attenzione che mi hai riservato. Prima di
rispondere, voglio fare una precisazione: questa intervista ha suscitato il mio
interesse, proprio, per il tipo di domande insolite, che, nella loro diversità,
riescono a dare spazio di esprimersi all’artista, senza sentirsi costretto in
un preciso schema. Voglio chiarire, quindi, che risponderò, visto proprio la
natura enigmatica delle domande, secondo l’interpretazione che io ho dato a
ognuna di esse, o meglio secondo ciò che la domanda ha suscitato in me.
Grazie infinite, Federico. E allora… cominciamo! Quale appellativo
useresti per ricordarti di quanto vali?
Ritengo
d’essere, in genere, una persona semplice e schiva, per questo motivo non amo
gli appellativi, o pensare quanto io possa valere, nel senso positivo o
negativo del termine, senza falsa modestia. Ciò che per me conta è il modo
d’essere, assoluto e immutabile dell’Io, cioè se in fondo una persona fa del
bene all’umanità o meno. Con l’esperienza ho raggiunto alcune certezze, negli
ambiti che m’interessavano e che volevo approfondire, che fanno parte oggi del
mio bagaglio socio/culturale e sulla base di queste continuo, senza fretta, con
passione e umiltà, a costruire il mio futuro con buona dose di fiducia
nell’Arte.
E’ vero che un’immagine o un suono riesce a tradire fino a
rimpicciolirci?
La
mia formazione è principalmente poetica e il poeta vive d’immagini e di suoni,
perché egli incarna l’immagine in un ritmo e in un suono che vengono poi
scanditi dai versi. Un’immagine che rispetta soggetti e accostamenti cromatici,
che richiamano l’attenzione dell’artista, lo portano a sognare, a immaginare d’allargare
la sua fantasia; e quell’immagine contestualizzata in un determinato momento,
nell’animo dell’autore, riesce a elevare il suo spirito, a sensibilizzare la
sua visione del mondo, ad aprire viaggi sconfinati, verso nuove idee, nuove mete
(ricordiamoci “L’infinito”di Leopardi, dove, addirittura, tutto è lasciato alla
potenza dell’immaginazione), riflessioni, paure, rumori, silenzi, cortine di
colori, emozioni, voglia di vivere, rabbia. Riescono, l’immagine e il suono,
allora, come hai detto tu, a far sentire piccolo l’uomo al cospetto del ciclo
immutabile della natura, della vita e dell’universo.
Mettere l’Anima è sempre più come fare una denuncia di smarrimento?
L’arte
esige l’anima dell’artista. Ma in letteratura questa diventa una cosa
pericolosa perché in mani inesperte si rischia di cadere nella
banalità/ingenuità, nel sentito e nello scontato. L’esempio deve essere sempre
quello della Divina Commedia di
Dante, in cui tutto è lasciato passare
solo se risponde a dei presupposti stabiliti dall’artista. Cioè non bisogna
scrivere solo per sfogare una propria piena, ma di questa piena bisogna fare
meditazione e pretesto di costruzione mentale, anteriore all’opera. Non bisogna
confondere l’anima con l’entusiasmo del sentimento, l’anima deve essere la
tramatura dell’opera, gli orditi che percorrono il libro da cima a fondo. In
definitiva, ritengo che l’anima sia uno degli elementi costitutivi della
letteratura, altrimenti l’opera diventa un semplice trattato; storico, politico
o sociale che sia. Ma, come dicevo sopra, questa deve essere usata sì con
libero arbitrio, ma anche dosata con sapienza, senza mai eccedere.
Ti è mai capitato d’avere a che fare con l’Impossibile in veste
incantevole?
“L’Impossibile
in veste incantevole”, lo vedo come tutto
ciò che tenta l’uomo nella vita e a volte lo fa peccare. Ma voglio focalizzare
l’attenzione sul compito dell’artista e del valore che egli deve dare alla sua
opera. Un autore nella sua piena libertà è tentato/provocato a eccedere in
qualsiasi direzione, proprio perché l’arte, in linea generale, non pone nessun
vincolo. Tranne quelli che lo stesso autore deve imporsi, e da questi ne deriva
l’equilibrio, il brio, la bellezza, lo stile che egli riesce a dare al proprio
libro. Ecco allora la differenza tra le opere ragionate, misurate, calibrate e
le opere d’impulso che determinano squilibri e sfasature sul piano tecnico,
stilistico.
Le cose s’incasinano per essere sicuri di…?
Come
sosteneva Leopardi nella poesia “La
quiete dopo la tempesta”, anche in arte
vale la stessa regola. Dopo la tempesta viene la quiete, bisogna prima
confondere, mescolare lo stile precedente con il nuovo; la conoscenza, ossia aggiungere
legna al fuoco, smarrirsi per potersi ritrovare, confondersi per poi fare
chiarezza e non perdere mai la voglia di sapere. Ciò significa, anche, riuscire
a nutrire lo spirito sempre di nuovi elementi culturali e continuare a crescere
nel tempo. Come sosteneva Oscar Wilde nel
suo grande capolavoro, Il ritratto di Dorian Gray, “il vero peccato della vita è fermarsi di crescere” e come sosteneva Pavese, “un artista che non distrugge
costantemente il proprio stile è solo un poveretto”. Bisogna, inoltre, sempre
stupirsi, perché lo stupore è il motore dell’arte; ma stupirsi sempre di cose
nuove.
E’ più bello aspettare il bene o il male di vivere?
Diceva
Pavese: “Inizio a fare poesia quando
la partita è persa”. Difficilmente, per me, la poesia nasce da uno stato
emotivo di felicità, perché questa non porta nessun travaglio interiore, mentre
le delusioni, gli errori, i pentimenti sì. Quindi in linea generale, per la
vita, sostengo che è sempre meglio aspettare il bene piuttosto che il male; ma
mentre il primo, almeno, per ciò che riguarda il mio punto di vista, non è
proficuo a livello artistico, il secondo porta una ventata di nuovi sentimenti
o di sentimenti vissuti in forma diversa.
Come si diventa stupidi secondo te?
Questa
è proprio una bella domanda. Nel mondo d’oggi, dove tutto è regolato dall’arida
legge del dare & avere, dalla bilancia della pecunia e da quel dio
quattrino che inquina il modo e i sentimenti, si diventa stupidi quando
qualcuno riesce ad abbindolare l’altro, in campo economico; l’opinione
pubblica, la massa, in questo caso, definisce chi ha compiuto questa azione,
sveglio e capace. L’intellettuale, per ciò che ancora può valere nel mondo
d’oggi, considera questa azione una stupida malvagità, che alla fine si rivolge
contro chi l’ha prodotta. Colui che possiede risorse intellettuali e culturali,
che crede in se stesso, che è certo delle proprie capacità, non si immergerà
mai nelle acque torbide del Male, non sognerà mai di compiere un torto a un suo
simile, proprio perché l’uomo d’ingegno agisce per il bene dell’umanità, come
le grandi scoperte che hanno portato a un miglioramento delle condizioni di
vita generale. In campo artistico si diventa stupidi quando ci si fossilizza
solo su uno stile, e, come dicevo sopra, non si è in grado di progredire.
La parola deve fornire per forza una spiegazione o un esercizio di
stile?
Per
come intendo io l’arte, la parola è un esercizio di stile, che nella sua
veste/forma deve fornire una spiegazione netta e chiara. La comunicazione non
sempre passa per vie dirette. Diceva Pirandello: “E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico
metto il senso e il valore delle cose così come sono dentro di me; mentre chi
le ascolta inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé,
del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo
mai!”.
Dalla comunicazione si può levare la confidenza?
Tutto
il mondo e tutto il sapere passa attraverso la comunicazione. E ce n’è un tipo
che deve dare familiarità, cioè far sentire l’autore vicino al lettore, ed è la
letteratura della poesia o del romanzo, e tipi di comunicazione che, proprio
per elemento costitutivo del tema trattato, devono negarne l’esistenza. In
questo secondo caso accade spesso però che testi scolastici o universitari siano
affidati a gente esperta di quella materia/disciplina, ma che non s’intende
assolutamente di comunicazione, e quindi si produce un testo sì colto, ma con
una comunicazione distorta.
… Nove Periodico (Edizioni Cerrito)
Riprendere un
legame coi tempi andati è come affidarsi nuovamente a certi intenti, stando a
ciò ch’è rimasto di una rude collettività in decadimento, assorbito dalle
facciate degli edifici, dagli oggetti.
L’intero
appeal moderno, di un continuo ingegno da promuovere per una specie di univoco
senso di trasporto, devasta determinati luoghi e modi di fare.
Prima non si
riusciva a capire come maturare, denotando solo successivamente una condizione
umana, qual è il soccombere al ritmo vitale, all’erroneità di scelte da
praticare sentendo il distinguo tra i ticchettii dell’orologio che danno conto
a nessuno, nutrendo delle scadenze per
sancire l’addio a una mescolanza di sentimenti con l’uso delle persone care,
osservando per forza il venir meno di profili comunissimi, per poi riprovare un
domani a ricostituire le origini, un paesaggio che ti si ripercuote
interiormente senza dare l’idea di badare alle sue anime.
E’ capitato
eccome che da piccoli si pensi di
coinvolgere malignamente, per divertimento, un individuo, e, compiuta l’azione,
suscitare irresponsabilità percependo d’aver perso.
Ma l’entusiasmo è così grande che intensifica
sconvolgendo il carattere pregiudiziale, a investire un paese curioso e
intrigante; senza immaginarne, trasferendosi altrove, il cambiamento.
In passato, c’è stata l’occasione di apprendere
perfettamente le possibilità per emergere, dando retta a delle leggi che
sembravano imprescindibili, con nozioni stampate per dovere di conoscenza,
mentre oggi citi in giudizio (più o meno) politici quasi incapaci d’intendere e
di volere, che non rassicurano su alcun tipo di riferimento pubblico e quindi
morale, trascinati da un sistema partitico inespugnabile, che scansa le
minoranze, per godere di soli privilegi.
Abbandonando
una località strettamente sicula, si credeva di essere pronti per sacrificarsi
e ritenersi liberi, indipendentemente da ogni sorta d’aiuto vicino e lontano,
ma il panorama che ne scaturisce t’inculca il fallimento della coscienza
popolare, la necessità di riscoprire gli strumenti di un ingranaggio naturale
che hai bloccato all’improvviso, riguardante una ricchezza terrena come poche,
che sbalordisce per quanto risulta indolente.
Librarsi
nell’aria è indispensabile, alla luce del Sole che affievolirà; quando essa si
surriscalda, tempra per svincolarsi dalle minacce di morte.
Come una fiaba
che riconduce all’eterno, d’ascoltare assolutamente, dovendo in primis cogliere
il contenuto dell’essere umano che ti occupa la visuale, per conquistare un
desiderio.
Ntonio, l’immenso amico del protagonista di questo
romanzo, invece si sostiene seppur amareggiato e pressato da cosa gli gira
intorno; dice, o forse diceva, la sua generando il Caso; da sempre imponente,
poiché dotato di una personalità carica di certezze curabili per definire la
propria sincerità, alternata a una fragilità d’animo nel perseguire qualsiasi
emozione, ben custodita.
Intanto,
localizzando una bottega di paese, ci si avvelena malinconicamente, con la
memoria che rilancia meraviglie intoccabili, in sospeso; che ti spinge ad
ammettere che si nasce per possedere
delle debolezze, tipo sradicarsi una volta per tutte; smarrito in una zona
isolata dalla realtà, ovvero nella tua terra pervasa dall’estraneo di
turno, e segnato mica tanto dalle tappe
di un percorso individuale, essendo inimmaginabili per chi ti guarda senza che
gli confermi mai l’approccio avvenuto, giustificandosi semmai grazie alla
motivazione dettata da una professione che deve qualificare e basta.
Nessun
obiettivo è gratuito per Mauro, quindi
viene facile rischiare la reputazione a mo’ di atto supremo, tra le relazioni
sociali ponderabili con la testardaggine di esseri che cullano giganteschi
difetti.
Ntonio inoltre
si dimostra insensibile sul punto di poter impressionare con gesti fraterni,
seccando ulteriormente il ricordo del papà e della mamma di Mauro, nemmeno
salutati in procinto di salire in cielo… Mauro che non riusciva a capacitarsi
per il destino di suo figlio, ucciso come se nulla fosse, invisibile per conto
di una città come lo è Roma, del resto.
Eppure il
pensiero d’aver contribuito a dare alla vita un essere indifeso acquieta un
individuo conficcatosi nel tempo andato che sembra venga proiettato in silenzio
sui muri, che si ferma a una registrazione polverosa, per poi riprendersi da
uno stato di pigrizia stancante.
In tutta
sincerità, la riscoperta di Ntonio serve
a tracciare la via di mezzo tra ciò ch’è stato e ciò che si diventerà, e
non si esclude il definitivo ritorno, scrutando la cessazione del respiro in un
preciso istante, per un principio ineludibile, che allontani dalla malasorte
per paradosso.
L’invito ad
avere fede si conclude parlando piano, per conforto, ascoltando un messaggero
di Dio che rievoca segreti animati e custoditi in eterno, prima di provare a
fissare negli occhi l’indifferenza, prima che si specchi nell’autonomia del
destino dell’umanità.
Ntonio però
deteneva sul serio della buona e sana superbia, mentre si doveva soccombere,
come se in castigo, alle direttive sanitarie, o nutrire incanto, e sapienza con
un linguaggio espanso, per un negoziante che bestemmiava vivacemente
nell’intento di riuscire a cogliere la bellezza di un prodotto da distribuire.
La miseria è dovuta dall’intelletto non messo in
pratica sconfinando, secondo Ntonio, gagliardo e irraggiungibile nel confidare questa
massima fin da piccolo, quando per
entusiasmare non si poteva fare a meno degl’innocenti, di cucciolate consce dei
sacrifici da compiere, con l’abilità per ripararsi e riflettere sulle fragilità
che riserviamo ai nostri cari, sperando di non farli preoccupare a tal punto da
non prefigurarne più la scorza emotiva, in un luogo ch’è anche tutto tuo;
d’arieggiare, ingigantire, innalzare!
L’appartenenza,
di forte tratto distintivo, va premuta nuovamente, anche per richiedere a un
legale qualunque, che bada all’ultimo momento alla documentazione che blocca la
successione degli eventi, la realizzazione di un proprio bisogno.
Il suo
bla-bla-bla non travolge la vista di Mauro attratta da delimitazioni e
sporgenze strutturali, facendo razzia di particolari senza tempo, col desiderio,
forse invalidante ma di certo spontaneo, di riavvolgere il nastro, come di
superare pesanti, innocui mezzi di trasporto in movimento, che rendono
assordanti e più fitte le tenebre, l’idea di non sbiadire, d’incoraggiare, con
una forza d’animo nient’altro che volontaria.
Adesso è il periodo dell’adolescenza a fulminare,
l’indimenticata sperimentazione che brilla solo artisticamente, a costo di
distruggerti intorno, in un errore da fare o per un capriccio al naturale, ma
volgendo alla comunicabilità col sorriso, senza dover deprimere, mai ignari di
dover crescere, di un innamoramento ostacolato da progetti al femminile e,
peggio ancora, all’antica, irriguardosi; di un chiaro e fresco pudore di
gioventù in procinto di precipitare nella consapevolezza di assumersi un rigor
di logica bestiale, che Mauro ha trascurato pur tormentandosi su esso, tra
il trattenerlo e lo strattonarlo col pensiero da far notare, a una povertà
prima sintomatica e dopo fisionomica, da cui scaturiscono forme di pessimismo,
ricomponibili con premura e onestà, seppur lungi dall’interpretazione, che
reprimono in automatico; come se fosse
già un’impresa resistere alle proprie conquiste.
Infatti,
l’euro e l’offensiva elaborata dal terrorismo islamico, apparentemente, c’hanno
portato all’assopimento morale, e quindi alla liberazione della pretesa tanto
provinciale quanto materiale, alla formazione provocata dalla disinformazione
s’una specie di variabile impazzita che slega le spese per il lavoro dalle
compravendite più o meno oggettive, rinvigorendo la dipendenza dall’offerta
originata oramai per sempre altrove, che ci ribassa.
Per badare a
quel che ti circonda, occorre rinfrescare, cambiare in fondo, tra l’ispirazione
e la cifra stilistica, ammonendo il differenziale per farsi davvero un esame di
coscienza, per sentirsi grandi e non in mezzo ai complessi d’inferiorità;
avendo dubbi sulla luce appena volgi lo sguardo al cielo, essendo capace
d’essere all’altezza delle indagini di mercato, alquanto variabili, ma con
ottimismo; con l’univoca dote di
percepire il disagio interiore, e andare così incontro all’ingenuità che
spicca al femminile, senza smettere d’ascoltare persone come Ntonio, appassionate
delle cose predisposte all’Io narrante, ben focalizzate, ma senza arrendersi,
fregandosene di uscirne sconfitti, purché si ricominci, testardi perché
responsabili, a costo della monotonia.
Una condizione
sorprendentemente attuale scalfisce quello stare liberamente sopra le righe, a
cavallo dei concepimenti epocali, per decorare in leggerezza atmosferica,
tramutando benemeriti, antipatici inetti, che ricostituiscono della malafede
per spadroneggiare, in uomini puri e garbati.
Non si riesce
a descrivere la metodica per sprigionare sensibilità, essendo più o meno
celabile, affinché non si precipiti senza remore, nel pensiero d’essere stati
bene insieme, alla faccia di un astio che fermenta proprio in colui di cui non
ti preoccupi.
Allontanandosi da un dato posto, diventa
incomprensibile il malessere sociale; il capogiro dipende dal vedo/non vedo dei
ricorsi storici, terreni, incentivato dalla tristezza di Ntonio, della sua argomentazione alquanto
vaga, dovendo piuttosto concretizzare, individuare gli ostacoli, sforzarsi di
ciò per un talento di pronta diffusione.
Eppure, a Canicattì & dintorni, è come se madre
Natura ti cullasse quando dormi e sogni, per impigrire e renderti inutile,
perfettamente; forse a causa delle invasioni letteralmente straniere che hanno
plasmato la Sicilia
nel corso dei tempi, un anonimato civile pieno di pezzi di ego che non si
possono riunire in virtù di una compatta carta dei diritti e dei doveri, resi
delitti e pene dall’aggiunta di notifiche per il bene del domani, ma
inopportune se influenzate da procedimenti sempre in sospeso!
Hanno
praticamente nulla da spartire un sudista e un nordista, visto l’impegno nel
contrapporsi maleducatamente, e di questo Ntonio n’è consapevole.
I cittadini
soffrono una rappresentanza lungi dalla meritocrazia per la maggior parte dei
casi, la società non può che attenersi alla decrepitazione impressa nella
faccia da mettere, senza tradire l’ambito promozionale, strategico.
Setacciando la Terra , scopri paesi che si
espongono nonostante ci sia poco da vedere, perciò unicamente coloro che sono
siciliani si possono reputare panoramici, anche a riprova dell’ambiguità
espressiva di Ntonio che comunque vuol
venire a capo della fama di Mauro, che musica senza dare mai nell’occhio, in
silenzio, né ribadendo vanteria come un antipatico sciupafemmine proteso al
materialismo più trascinante e sfuggente, con coperture di stima elevabile al
superfluo.
Ntonio si
chiede se l’amico in carriera abbia addirittura fallito, posando in modo
narcisistico, esattamente come da giovane, avendone ben donde, tirandosi a
lucido, nient’affatto scavato dagli anni che passano, ma sensibile alla figura
materna, svuotata di una desolazione che comunque rimbalza s’un intelletto
fortificato dall’anima che sommerge sentimenti sbattuti.
Per l’effetto
sonoro si deve dare conto dell’ossigeno che incorpori, abbandonato per
un’estate che non dà scampo, delimitata dalla depressione appurata e
sconsacrata, dalle allusioni di vecchie glorie a un’energia del tutto
sprigionata ma che lede alla pelle, che alla lunga non rinfranca, sprofondando
in aperta campagna, nel refrigerio conquistato da stupide, tenere bestie,
quando è sconsigliato uscire fuori e l’acqua va bevuta per risalire alla terra.
Si dorme, con
la testa piena di una corrente che rinvigorisce elementi che si protendono
verso il fertile, con una spinta olfattiva, ch’evidenzia tracce di un dolore
coltivabile, crudelmente, per ricredere nelle raccomandazioni sull’ordine da
fare tra gli strumenti, per sconfiggere i piccoli ladri.
Il papà di
Ntonio ti osserva come un bambino, con una memoria da reinventare, l’inesistenza
ingiusta, d’attendere quasi, che non ammette repliche, all’arrivo del tempo
andato, chiuso negli affetti da celebrare, mai fuori dal comune, distanti dalle
responsabilità che oramai sono state impugnate.
Scorgi riserve
per un bestiame, al calar del sole, di un ingrediente essenziale per un dolce
che sa di amaro, per masticare pace senza sentirsi liberi, come quando le ore
piccole si consumavano per allargare il campo di vedute, di melodie sempre più
rumorose, fastidiose, ballabili rasentando il proibito.
Eppure Luisa ci teneva a Mauro, troppo;
delicata e dedita all’ascolto, con un’audacia prossima a reprimersi, di una
sensualità sospesa nella ricomposizione degli eventi che accadranno, con la
carnalità che andava pregustata, che invitava a peccare altrove, per emozioni
incalcolabili, che non galleggiano nell’anima di una ragazza desiderata.
Ntonio intanto
accompagna Mauro, continua a indietreggiare con lui, in cerca di quanto donato.
A differenza
delle altre, lei, non varcando la propria ingenuità si entusiasmava, era
bellissima per questo motivo; e Mauro si
danna per come quest’amore era tanto impedito quanto custodito nel sospiro da
emettere insieme, in un incrocio di sguardi letale.
Si prendevano,
in vista di un distacco comprensibile solo dal precursore che fa a pugni con
forme attuali, disarmoniche.
Dal dire al
fare, per lui il passo è breve, le pagine di un diario si sporcano dunque di
pensieri.
Allucinante
come costino care le aspirazioni di un’esistenza intimata, aldilà dell’artista
che si è, che raziocina il domani sprovvisto incredibilmente di sagacia, legato
a una negazione di ficcante agglomerato urbano, irrealizzata.
Il richiamo
meridionale è qualificante dacché passionale, la sensazione di essere finiti
dentro il Sole che offende ulteriormente il terreno agricolo si era
raffreddata, auspicando di emigrare, con la pressione atmosferica magicamente
attutitasi, e allora in pace con se stessi.
Ntonio in cuor suo aveva smesso d’idealizzare nella
cornice di un’umanità sputata, e ne scaturì l’avanzamento della disistima del
suo volere, come se dubbioso circa la capacità di Mauro, di un suo simile in
buona sostanza, di sfondare… senz’alcun aiuto, con la concretezza che mette
però a repentaglio lo spirito.
Crescendo vieni a conoscenza di lotte confusionarie
per avere la meglio sulla vita, s’una condizione meteorologica che si stempera
straordinariamente, volgendo lo sguardo all’universo, laddove il caldo, la
sicilianità, forse, non è consueta...!
La vista di
Ntonio si mostra forte tra le oscurità, col mutismo che si scioglie parlando
lucidamente, in un affetto vecchissimo, una gabbia per chi scappa, fatta di
ricami, con strumenti arrugginiti e a scatto, e il piacere d’infuriarsi come il
tempo, contrastando la violenza che riemerge per il rimpianto a prova di
cittadinanza passiva.
Ntonio
somiglia proprio a un albero secolare, mentre Mauro fa razzia olfattiva di luoghi di pazienza, forte di quella
saggezza nelle affermazioni che lasciano di sasso, ogni tanto, tipiche di chi
la terra non la calpesta solamente per impossessarsi bonariamente della logica
comune.
La
misericordia concatena i battiti del cuore di un animale che non sa come
riprendere il proprio destino, che non si riconosce più, per selvaggi, infiniti
spazi richiudibili.
L’incoraggiamento
di una solitudine avvincente fintanto ch’è innocente, e dunque da condividere,
tra gl’impegni assunti, ebbene deve rallegrare, ricadendo dinanzi a un’amarezza
di alternative per l’orientamento più esplicito, da sollecitare motivando il
figlio di Ntonio, di un’umanità d’azzardare, per scavare il suolo e rivedere di
cos’è fatto, per farsi male stancandosi di ciò, e accorgersi di andare avanti,
di saper respirare.
Bisognava
appassionarsi nuovamente allo show di madre Natura, avvicinando l’opinione
sulle buone maniere adottate, da ignorante, alla consapevolezza di poterla
ascoltare, affinché si sappia di che vita moriamo.
Per averla
vinta sprofondi nella depressione, le disposizioni materiali sono pronte ad
accoglierti per badare così più a niente, sapendo d’essere in via di
esaurimento spirituale.
L’errore consiste allora nel fare esperienza tutta
d’un botto, con riferimenti ch’esistono senza darlo mai a vedere, che mancano.
Cosa c’è da
stringere, col desiderio inimmaginabile e continuo di apparire, rievocando
stavolta della sterile sagacia, la parola da mantenere, circa una retta via
incondizionata?
Era solita la meticolosità di Mauro nell’esibirsi
artisticamente, forse insuperabile, frutto di nozioni alla lunga
indispensabili, memorizzabili.
Con la sofferenza nel credere di guardare in faccia
nessuno, nel sentirsi soli, per armonizzarsi completamente, convinto che
qualcuno/a ci sia sempre a seguirti, tra i complessi d’inferiorità degli altri,
che aspirano al successo per tendenze commerciali, senza quell’umiltà che
sviluppa buoni propositi ma anche cattive delusioni, perennemente.
Ci si perde
tra i “c’era una volta”, i complimenti rimbalzano sul petto di un uomo che
traspare per le loro conseguenze, per un paradosso dovuto da una coscienza
illimitata, senza preoccuparsi di essere andati in panico, della spontaneità
che permette di cambiare idea, di cui si fregiano le persone che hanno piacere
di sognare.
L’agiatezza ti decrepita peggio della povertà, e non c’è scampo conseguendo a
un’anima che si prosciuga ed evidenzia del pessimismo infinito, a cui sono
soggetti appieno dei nuclei familiari peraltro; il benestare induce a dormire
meravigliosamente, togliendoti responsabilità per un disordine celante difetti
e qualsiasi sbaglio compiuto, con una propensione allo sputtanamento da parte
del genere femminile, che galleggia nella propria leggerezza per soffocare
nell’impropria agevolezza di natura prettamente economica.
Ma come si fa
ad attribuire delle colpe a un disperato e per giunta non vedente, che a
dispetto della sua cattiva condizione si muove, non ragionandoci su?
Mauro era cosciente affiancandosi a una donna che non
rappresentava il domani, cogliendo l’attimo più bello senza freni, affascinato
da una donna splendida per com’era sopraffino il suo svanire in quel di Roma, oramai saggio e marcato nei
lineamenti del viso, sapendo di attrarre.
Il musicista
si riservava il cambio d’aria per salvare il buonsenso, cercando di non
aggraziarla più del voluto, con compostezza sospirosa, suonandole pezzi di
classico repertorio, per farla andare oltre, però a tal punto da preoccuparsi
delle sue di voglie, trattenute, per una sfida da vincere opportunamente,
facendo a botte con una sopraspecie di autoemarginazione, a proposito di come
non ci sia mai stata (…) una persona dell’altro sesso disposta davvero ad
ascoltarlo, di come Mauro sia bello e dannato.
Quest’altra Lei era in grado di ricamare della sana
spontaneità facendosi preda in termini sentimentali, elevandosi a una dimensione
che provocasse caparbietà, contraddistinguendosi, alla fine giusto per non
annoiarsi, smarrendo una stima incondizionata, appena confermato il possesso
dal lato umano.
La
vicendevolezza delle coccole era costellata da una dote incredibile, pervasa da
pettegolezzi e partner deficitari quando dovevano dare il meglio di loro.
Il distacco
lacerava i cuori smussati da un’essenza lasciata sulla pelle, prepotente.
Il pensiero di
Mauro si fece rapire, per constatazioni intime da ricambiare giocoforza, scorgendo
nel riposo di una dea la conquista di un corpo sublime, tornato immune d’amori
precedenti; perché è importante capacitarsi, e quindi l’individuo in sostanza,
magari da offrire a un collettivo commisurabile per rinvigorimento, senza
badare a tutto quello che in fondo non esiste; di modo ché si possa progredire
volontariamente.
Una relazione resta impressa per quant’è irreale, la
si focalizza quando si è ragazzi e l’affetto viene sincerato, concluso
dichiarando in un niente che si è cotti; ma, fuoriuscito l’accertamento, si
dimentica poi d’essere magici, di dettagliare i sensi, e ciò che intrigava diventa
terribile, le discussioni fortificate sono la riprova di una debolezza
conclamata; perché si vive senza vagare nell’universo.
La seduzione
oggettiva non è esauriente se fin dai primi passi non sei in grado di provare a
perfezionarti per l’immaginario, complicato, scandito da un mutismo urticante,
di chi t’accompagna sempre, al limite di
una verità come poche.
Mauro, da
perfetto ignaro, invece stava sul punto d’essere catalogato per un
intrattenimento fuorviante, generico, che riguarda nemmeno i suoi simili; e
pensare ch’egli si stava formando su un piano immateriale, tentato solo
dall’illusione di sfondare i suoi di limiti, senza stancarsi di accarezzarli
respirando.
Stava venendo
meno l’intento di calarsi in un pozzo oscuro per riafferrare precedenti
confidenze, senza manometterle assolutamente, ma una decadenza della memoria
andava impedita in un modo o nell’altro, a costo di un capriccio annientabile.
La consacrazione di un torto in prossimità
dell’autostima consisteva nell’evitare l’approccio con questa donna, e per
paradosso nel porre le basi per un sentimento spiazzante.
Ci sarebbe
voluto perciò un richiamo di sola Estate, ch’estirpasse i tormenti di Mauro,
che lo convincesse circa il fatto d’essere adulti abbastanza per convenire ai
disegni del domani, di fare parte di una generazione del tutto logica in
ragione dei predecessori, a fronte di un dissesto terreno d’appurare per dare
spazio nient’altro che a dei successori.
Mauro aveva bisogno di una incontrastata pausa di
riflessione, di guardarsi dentro sfiorando l’idea di diventare un altro,
sopraffatto da un appagamento fin troppo esauriente, riuscendo semmai a
constatare della tensione volta alla percezione che qualcosa di terribile
sarebbe accaduta distaccandosi dagli affetti più cari, senza parsimonia alcuna;
da un paese d’origine tralasciato, con tutta l’euforia di quando si era
immaturi, senza doverci pensare.
Oramai egli non contava più, perché aveva deciso di
uscire fuori; ma tanto valeva scuotere l’anima di una comunità timorosa e
suppergiù inospitale, perché è proprio il rischio di risultare alla fine un
perdente che ti avvicina al sogno del bene comune, a ridefinirsi siciliani, nuovamente
sinceri, reintegrando il Pensiero in perenne fase di stallo; tra presente,
passato e futuro… elementi da ricongiungere ragionando su distanze taglienti,
mostruose.
Quando le
tenebre calano, la mente batte forte come il cuore, la solitudine ci disorienta
perché si vuol concretizzare, col carisma ancora da ricomporre, senza più
girare l’ostacolo.
Il
presentimento ch’era accaduto un fatto impronunciabile lo conturbava, lo
riconduceva agli abissi degli occhi di Ntonio, guarda caso molto provato e
irrigidito.
Le emozioni
positive non rendono fragili, qui si tratta invece di raccontare in poche
parole la disfatta morale, incentivata dal Mauro
in fuga per realizzarsi, che ha segnato il destino della sua Luisa che invece
si era innamorata di una bestia, senza badare mai a sé.
Ecco che una
tragedia si rileva in un lampo di dolore, che Mauro incassa, come quando,
gagliardo, ritenne che niente e nessuno lo avrebbe plasmato per motivi esterni
alla sua causa, tantomeno la sua Sicilia: un’affermazione che va rinfrescata,
per quell’onestà nel giudicare trafitta dagl’interessi di potenti manipolatori
di norme civili e penali, che Ntonio aveva affrontato prima di arrendersi
aspramente, e d’ammettere di stare ad aggravare questo male indirettamente.
Finalmente, Mauro e Ntonio riprendono a bruciare
insieme ancora di passione a rigor di logica, comprovando che un sentimento non
sopravvive a metà, che un motore s’inceppa per una condizione di mediocrità
resa solenne, senza seguire delle proprie regole per sconfiggere un cancro
sociale, che Mauro non può fare a meno di comprendere astutamente per una sorta
di condanna a morte d’attribuire a chi se la merita, muovendosi piano per
riemergere da quanto ascoltato a freddo, scrollandosi dai nervi di un’esistenza
sempre più latente, avendo in fondo nulla più da perdere, per rivendicare solo
un’attrazione fatalmente dolce, nel nome di Luisa… che non si è sviluppata
perché si è umani;
seppur sconsigliato da Ntonio che ha rosicato a seguito dell’apparente
leggerezza dell’amico che piuttosto c’ha sempre tenuto a soppesare il cuore in
serbo.
Dentro Ntonio,
il bene voluto nei riguardi dell’amico stava per eclissarsi, dietro il rancore
per aver concepito ancora una diversità di caratteri inespugnabile, insieme.
Aldilà dell’esplicitazione
del successo in ambito professionale, Mauro cerca d’inculcargli una voglia di
fare come di reagire, tale da disintegrarsi, cioè al fine di rimanere
soddisfatti di sé, giacché le traversie vanno riviste senza passarci sopra come
se fosse accaduto nulla.
Il carisma si
accentua per dover stare in pace, e accrescere emotivamente, forte inoltre di
una solitudine che rende liberi di esprimersi.
Luisa non costituiva vuoti di pensiero, proprio perché
ha rimesso in ordine i turbamenti di Mauro che si concede come minimo il lusso
di una parte da recitare.
Sporcandosi
d’imbecillità, mista al pettegolezzo selvaggio, stringendo le mani di creature
immonde, impreziosite da un perfetto intruso seppur prive di stile; un Mauro
che sa farsi rispettare prontamente, nonostante una maleducazione che non si
poteva disattendere, ma con la strafottenza nello svelare esistenze presto che
narrate, purché sotto falso nome e con un patrimonio immorale che
ringalluzzisce.
L’attesa era
tutta riposta nell’angoscia di giudicare, con le asperità di cime immacolate,
secche, affilate, intoccabili… esattamente le stesse caratteristiche che
innalzano il sistema nervoso di un individuo che intuisce caparbiamente per
trasparire come ben pochi altri, atteggiandosi come un rapace persecutore di
nutrimenti disamorevoli in eccesso, un combattente dalla indole comunicativa da
preservare; perché basta poco per gridare vendetta come per rimanere in eterno
vittime di uno sconcerto ineluttabile, con la saggezza, nell’evitare il precostituirsi
di negatività a crudo, d’accantonare.
Il criminale di un amore cullato galleggiava nell’idea
di Mauro, di affossarlo, ma la convinzione del primo, di saper comandare e
strumentalizzare, si dissolve in un niente, denotando come gli sviluppi di una
qualsiasi vicenda possano venir dettati dagli altri.
Poiché è
praticamente impossibile stracciare i cataloghi della memoria, insorgerebbe
l’inesistenza, come nel caso di un soggetto che dipende esclusivamente dalla
mafia locale, che se scavasse nella semplice parola fuoriuscita dalla bocca
spontaneamente si troverebbe il riscatto di Mauro, senza la benché minima
attenuante, e poi l’amaro del corso degli eventi, su cui si è abili a
snocciolare particolari, ma così ingenui da perdersi di vista oggettivamente,
per natura umana, per quel tesoro ch’è difficile custodirlo.
In
conclusione, l’efficacia della narrazione di Li Calzi appartiene ad affetti che
si rendono ulteriormente tradizioni necessarie, intime; da raccogliere
fedelmente, per riemergere e dare nient’altro che il buon esempio, in un paese,
una rimescolanza da centralizzare, di vie, attrazioni, incantesimi, tinte,
aromi, gusti, apparizioni e vuoti, dopo le dovute distinzioni facenti ribollire
l’anima, nella vita che si trascorre, in un’eroina avvincente, tutta da
corteggiare.
Come sosteneva
il compianto Giorgio Faletti, spesso è più bello disorientarsi nel divenire
irreali invece che stare fermi, ad assistere, e dunque rinunciando senza farci
mai caso, all’incentivazione della purezza per un senso di trasporto, che si
ottiene apprendendo come star bene, per ragionare sulle esperienze fatte e con
le voci che circolano; rispettando la paura di non sorreggersi fisicamente,
negli occhi pur sempre spalancati.
Si romanza,
per un contatto che non lesina l’orgoglio dell’uomo proteso senza maschere né
deleghe verso il risultato del suo essere, che si mostra nella parola
sensibile, ammettendo la completezza, per dichiararne i risvolti, di un patto
d’amicizia e per tutelarsi, più incisivo di una medicina studiata per opportune
dosi, con l’atmosfera che si gonfia, da misurare per l’effetto thriller, di
scoperte appassionanti, che suscitano mistero per un’unica novità
destabilizzante.
Dalla
riproduzione della verità si traggono vortici per condizioni momentanee
evidenti dacché stimolate, però senza che ritocchino la sensibilità per com’è
strutturata per principio, che rimane dunque battente e motivante per la
meditazione al mutare dei periodi atmosferici, sotto tormenti e solleoni, lungo
passioni e notti ricostituibili.
E’ la vivacità
di un talento assoluto se si manifesta opportunamente, con la contemporaneità
illuminante, sistematica, a coinvolgere ulteriormente i particolari da sogno
dell’autore, di un Federico Li Calzi che sembra verseggiare talvolta per riassumere,
senza mai stravolgere il repertorio letterario, il racconto, per recuperarne
l’intensità con attenzione, lucidità mentale e sapiente avanzamento solidale.
L’attendibilità
di un destino non cade mai dal cielo, riporta generalmente alla cognizione di
un Cesare Pavese che affonda nel romanzo “La luna e i falò”, per via di questo Mauro che s’è affermato
da un bel po’ altrove suonando alla grande le sue melodie, per poi sentirsi in
dovere di ricontare su dov’è nato, spremuto da sollecitudini e volontà come
quella di autenticare la bellezza dei posti frequentati per sola inesperienza
(avete mai visto “Nuovo Cinema Paradiso”?), a differenza di una città come Roma
che gli aveva suggellato la fama, unicamente in veste pubblica, mentre
privatamente incassava dispiaceri e fallimenti.
Oltre a riabbracciare lo storico compagno d’avventure,
irrigiditosi a causa di un incanto fatto a donna, che in fondo non potrà
svanire, ricercato da Mauro dopo non averlo colto al volo.
Li Calzi palesa dimensionamento nelle spiegazioni,
impiegate con una cadenza che permette il ricomponimento, a mo’ di ritornello
armonico, alla lettura del testo, che prorompe per mezzo di un affetto alla
fine dei fatti incontrovertibile, quello che lega il protagonista a Ntonio,
consentendo di guardarsi dentro per vedere come traspaiono le persone
d’affrontare.
L’autore si
distingue da quegli emergenti o affermati che oggigiorno si vantano d’essere
tali ma senza voler prendere esempio, come se intestarditi a girare sull’orlo
di un precipizio, di una colpa che non ci attribuiamo, credendo d’essere
creativi quando invece s’è rimasti sconvolti dalle tendenze consumistiche,
popolari, fin troppo distaccati dalle relazioni col Passato.
Nove Periodico è un libro aperto, che ti assorbe
espressivamente, forte di una forma ben definita, con le passioni che si
rasserenano infine,
quasi a citare i capolavori di un regista che faceva girare eccome la pellicola
come Kurosawa; avendoci combattuto in
maniera raziocinante, affilando nel mentre le tecniche, per poi chinare il capo
da vincente, perché è straordinario essere semplicemente sinceri.
Vincenzo Calò
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