Mi destano le più peculiari perplessità le personalità
“aperte e problematiche” che, pure, sono permeate da un solido positivismo.
Cosa c’è realmente dietro la “negazione di tutte le certezze”? Non è forse essa
stessa una certezza?
Questo e
altro mi si rigira in mente, leggendo scritti critici su Antonia Pozzi
(1912-1938). Si laureò presso la Regia Università di Milano, con una tesi in
Estetica. Suo relatore era il prof. Antonio
Banfi. Così lo descrive Maria Corti: “C’era in Banfi da un lato una
capacità e forza intellettuale di mettere in crisi le nostre più radicate
sicurezze, religiose o filosofiche che fossero, e dall’altro di innestare su
quelle crisi un problematicismo alquanto drammatico ma affascinante…” (1) Altrimenti
detto, con le parole della Pozzi: “Paci. Dostojevschiano anche lui. E anche lui
sente, acutamente, che una visione filosofica come quella di Banfi applicata
alla vita di un giovane porta a spaventose conseguenze pratiche. Comprendere
tutto, giustificare tutto. L’assassino, l’idiota, il santo. Ma allora anche noi
possiamo farci assassini, pur di non rifiutare nessuna esperienza?” (2) Eppure,
non era un nichilista o un cinico. Dino Formaggio lo ricorda come un
“persuasore di vita” (3): spingeva a porsi una meta, un compito
concreto da eseguire davanti alla collettività e alla Storia. Qualcosa di
simile a ciò che la Pozzi accarezzava negli ultimi anni di vita: studiare la
realtà circostante, attraverso lo strumento del romanzo storico. Ricorda un po’
lo spirito empirista e socialmente impegnato dei Naturalisti francesi, questo
professore di Estetica. È facile immaginarlo vividamente, coi modi misurati, il
sorriso distaccato, l’amabile disponibilità all’ascolto. Non stupisce il fatto
che la Pozzi gli si affidasse al punto da consegnargli alcune delle proprie
poesie: il che equivaleva a sottoporgli se stessa. Uno strano confronto: la
melanconica, intimista Antonia davanti all’ “uomo del dubbio” che agiva come se
non avesse affatto dubbi. Qualcuno per il quale le crisi andavano ammesse
soltanto nella Storia: quelle individuali dovevano essere superate. Il buon
banfiano avrebbe dovuto assumersi responsabilità e “fare”. Fare. Non è detto che equivalga a “vivere”.
Pochi anni
dopo la laurea, Antonia Pozzi si suicida. La medicina della poesia non poteva
più salvarla. Troppi “buoni consiglieri” l’avevano screditata. Fra questi, gli
“amici” di Antonia e lo stesso Banfi. “Scrivi il meno possibile” le diceva Enzo
Paci. “Io penso che tu sei molto intelligente ma molto disordinata. […] Bisogna
avere più volontà. E del resto la volontà è come un muscolo: basta esercitarla”
(4) la rimbrottò Remo Cantoni: lo stesso che voleva fare di lei “una
vera donna” (5). Ma cercar di costruire una “vera donna” o un “vero
uomo” significa sprecare la persona
che si ha di fronte. Antonia Pozzi non era una “buona” banfiana. Era una
personalità che avrebbe voluto “sgorgare per donarsi” (6), i cui
pregi stavano nella capacità d’affetti forti e costanti, nel trasformare sogno
e dolore in canto. Decenni di vita possono assumer senso da un istante di
bellezza –senza bisogno d’altro. È ciò che non capiranno mai i “positivisti”,
le anime “equilibrate” che decostruiscono coloro a cui si trovano davanti, per
riconfermare le proprie convinzioni. Per la prima volta, mi balena il senso di
quelle parole:
…ti
piacerebbe fuggire lontano
e
fermare chi si è permesso
di
legare ad un muro le tue speranze
per
provare qualcosa a se stesso… (7)
(1) M.
Corti, Dialogo in pubblico, Milano,
Rizzoli, 1995, p. 31.
(2) A.
Pozzi, Diari, 6 febbraio 1935.
(3) G.
Scaramuzza (a cura di), La vita
irrimediabile cit., p. 154.
(4) A
Pozzi, Diari, 4 febbraio 1935.
(5) A.
Pozzi, lettera da Pasturo a Vittorio
Sereni, 20 giugno 1935.
(6) A.
Pozzi, Diari, 4 febbraio 1935.
(7) La libertà di volare (Carletti
G. – Chiarelli M.), in: Nomadi, Liberi di
volare, 2000, Edizioni Warner Chappell Music Italiana.
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