Tutto avrei pensato, tranne che mi sarei commossa, guardando
Scarface (1983). È stata una reazione quasi dissacrante, considerando che si
tratta del capolavoro del genere gangster
movie –non proprio un polpettone melenso. In particolare, la celeberrima
scena della motosega era proprio pulp e
splatter come l’aveva preannunciata
Saviano. Tutto quel sangue per concludere una transazione commerciale… e mo’ chi pulisce???
Comunque, a
mente più riposata, quella commozione non era così ingiustificata. Ἔλεος si
accompagna sempre a φόβος. È la formula della tragedia.
All’inizio,
avevo pensato a Sofocle, alla solitudine feroce del suo Aiace. Ma è più
calzante il paragone colto da Roberto Saviano: quello con Achille, il guerriero
che va incontro a una morte prevista e, forse soprattutto per questo, sa che vale la pena di combattere senza
risparmiarsi.
Dante
scrive che, in una tragedia, l’inizio è piacevole, ma il finale terribile. A
dire il vero, anche l’incipit, in
questo caso, non mi è parso così luminoso. Tony Montana arriva negli Stati
Uniti come galeotto sbarcato senza troppi complimenti fuori da Cuba, insieme ad
altri reietti “antirivoluzionari”. “Sapete come sono i comunisti? Sempre a
dirti cosa devi fare, cosa devi pensare, cosa devi volere…” Non proprio il
genere di regime con cui è compatibile un ego così volitivo. Di sicuro, si
trova molto meglio a Miami, che Brian De Palma dipinge come un paradiso
vacanziero. Almeno in superficie. Nel suo cuore, pulsano il traffico di
cocaina, la criminalità organizzata, le torture. Proprio per questo, però, Tony
avverte che è il posto giusto per prendersi qualcosa. Ma cosa, esattamente? “Il
mondo… e tutto quel che c’è dentro.”
Fin da subito,
Tony è un “diverso”. A partire dalla cicatrice che gli ha fruttato il
soprannome. Ricordo di un (quantomeno sospetto) “gioco fra ragazzini”. Anche
Edipo portava cicatrici. È il Destino che ammicca.
Non
somiglia per nulla a Frank Lopez, il suo boss. Costui è uno zerbinotto che
ricorda squisitamente le annotazioni di Amleto: un uomo può sorridere,
sorridere ed essere una canaglia. Ben poca voglia di sorridere ha invece la sua
donna, Elvira. Un nome da opera lirica per una regina, o presunta tale. In realtà,
pare che nulla la soddisfi veramente. È ben più lucida dello svaporato Frank. Parte
da una disillusione iniziale: sente che non troverà alcuna felicità ideale;
dunque, si cura d’ottenere tutto quanto può darle il “reale” e, per il resto,
tace.
Prevedibilmente,
Elvira passa dalla casa di Frank a quella di Tony, quando questi l’ha scalzato.
È lei a conferire il potere, come quelle sacerdotesse babilonesi che
consacravano i sovrani attraverso la ierogamia. Tuttavia, fin da subito
qualcosa non va. Nella villa principesca di Montana, c’è una tigre tenuta al
guinzaglio. Proprio a quella creatura era stata più volte paragonata Elvira. Da
pochissimo è stato celebrato il suo matrimonio con Scarface e già è pronta la
“gabbia”: l’alienazione nell’alcool, nel fumo e nella cocaina.
Nemmeno lui è soddisfatto. Tutto quel sangue e
quella fatica gli sono valsi solo a imbalsamarlo in uno smoking, rendendolo
uguale ai fantocci ingioiellati che disprezza. A chi impernia la propria vita
sul “far soldi”, dà la migliore lezione possibile: senza una passione gratuita,
senza il gusto per quanto gli uomini hanno creato di bello, la vita è troppo poco. Il suo male di vivere
culmina in un monologo memorabile: l’apologo del bad guy, colui che è rimasto uguale a se stesso, a costo d’essere
“il cattivo”. Ai “buoni” servono i “cattivi”, per potersi autocompiacere. Anche
se neppure loro sono felici.
La tragedia
prosegue in crescendo, con pennellate
degne del Seneca più cupo. Non manca nemmeno il sentimento incestuoso, che
porta Tony ad affrontare, per gelosia, l’amico d’una vita. Anche questo un
τόπος da opera lirica. Tutto molto plateale, ma mai tale da suscitare nello
spettatore l’irrisione o l’incredulità. L’incantesimo è avvolgente, come a
teatro. Diceva bene Umberto Eco: due cliché fanno ridere; cento cliché
commuovono.
Chi ha
visto il film ricorderà sempre Scarface congelato in quella scena culminante:
lui che precipita dal balcone/palcoscenico, a braccia distese. Un controcanto
diabolico al Crocifisso –o l’estremo tentativo di stringere il mondo intero.
Null’altro
se non il melodramma può presentare l’atroce nella sua interezza, senza
distruggere lo spettatore. È μελέτη θάνατου, un “esercitarsi alla morte” che,
però, ci lascia vivi. Purificati –forse- dall’aver soppesato il prezzo del mondo. Il quale è a un
passo da noi, ci sfiora le dita –ma chiede in cambio, per essere posseduto,
tutto quanto noi siamo.
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