«Uuh,
c’è uno che ti piace, allora? Vuoi che ti diamo il suo numero? Vuoi che gli
parliamo? Ma dai… perché non dici niente? Siamo amiche, no? Non fare la stronza…»
Ecco uno spaccato della tipica
conversazione fra ragazze della stessa compagnia, in età dai 13 anni in su.
Nonché il motivo per cui evitavo come la peste, da adolescente, i gruppi
totalmente al femminile. C’entrava la mia educazione, improntata a una
riservatezza quasi claustrale. Col passare degli anni, ho superato quell’embargo
troppo rigoroso e ho fatto emergere maggiormente la mia naturale faccia di
bronzo. Ma sempre mantenendo un intimo fastidio per un certo tipo d’atteggiamento:
il porre la confidenza assoluta e
incondizionata come pegno dell’amicizia.
«Perché non mi hai detto che sei
uscita con quella persona? Come mai non hai invitato anche me? Perché sei passata
in quel posto per vedere altra gente e non hai detto niente a me? Perché non
eri presente a quel tale evento?»
Contrariamente
a quanto può far credere l’incipit del brano, non è un comportamento limitato a
un solo sesso o a una sola età.
Ho sempre considerato la limpidezza
come imprescindibile in qualunque rapporto d’amicizia. Ma la mia nozione di “limpidezza”
è: non tacere all’altro niente DI CIÒ CHE
LO RIGUARDA. Ovvero: non tacergli eventuali dubbi o rancori nei suoi
confronti; non tacergli la mia opinione sugli argomenti discussi assieme, nel
momento in cui essa si è fatta chiara (ovvero, non necessariamente ilico et immediate).
La mia vita sessuale, i miei
rapporti familiari, il modo in cui organizzo la mia agenda e le confidenze di terzi fatte alla sottoscritta NON
rientrano in questa lista. Uomo avvisato…
Ho visto bensì persone a me molto
vicine mancare (con terzi, non con la sottoscritta) alla regola della
limpidezza così come l’ho esposta. L’hanno fatto ignorando i miei consigli e ne
hanno pagato le conseguenze. Essendo causa del proprio male, piangeranno se
stessi.
Quanto
alle cose che non rientrano in “quelle da dire assolutamente all’amico”… esse
possono essere confidate liberamente, per il puro piacere di farlo. Ciò che non
condivido è il sentirsi in diritto di
saperle, per il fatto di essere amici. E condizionare il mantenimento dell’amicizia
a questa confidenza assoluta e cadaverica.
A questo, mi sento di rispondere
quello che il Profeta di Kahlil Gibran diceva del matrimonio:
Riempitevi la
coppa l’un l’altro, ma non bevete da una sola.
Condividete il
vostro pane, ma non mangiate dalla stessa pagnotta.
Cantate e
ballate insieme e siate in festa, ma lasciate che ciascuno dei due sia solo,
Così come le
corde di un liuto sono sole benché vibrino della stessa musica.
O,
per i più semplici, ciò che dice Zerocalcare in Dimentica il mio nome:
Un uomo senza un
segreto è un uomo senza identità.
Se
l’amicizia non rispetta le zone d’ombre dell’altro, finisce per diventare un
groviglio in cui almeno uno dei due non disdegna i più bassi sotterfugi, pur di
arrivare a carpire la riservatezza dell’altro e dimostrargli che sa tutto della sua vita, a suo marcio
dispetto. Chi così fa, peraltro, è stato spesso destinatario di confidenze
delicatissime, che hanno ingenerato la sua convinzione ad aver diritto ad altre ancora.
Cosicché, ogni forma di silenzio, anche sensata e dovuta al rispetto di sé
o degli altri, è un defraudamento, una
mancanza di fiducia nei suoi confronti: «Perché
non mi dici le cose? Guarda, forse è meglio che non ci parliamo più… Non mi
serve a niente parlare con te solo per farmi prendere in giro!»
A casa mia, ciò si chiama “paranoia”. Non certo “rispetto” o “amicizia”. E lo penso anche nell’ambito dei rapporti di coppia o della famiglia. Non può esser giustificato con la premura, perché (fra persone adulte) ciascuno dei due può e deve saper badare ai propri problemi, secondo la propria sensibilità e capacità di giudizio. Nel momento in cui qualcuno si arroga il ruolo di “paladino e consigliere” dell’altro, l’amicizia finisce e inizia una forma di dorata servitù. Sotto forma di amorevole tutela, ma pur sempre servitù. A chi parla di fiducia, così la definisco: riconoscere all’altro il diritto di organizzarsi la propria vita secondo la propria capacità di giudizio. Non attribuisco agli amici la funzione di saperne più di me su quale sia il giusto rapporto coi miei familiari, o quale sia l’anima gemella più giusta per me, o quale comportamento io debba avere in campo spirituale. Un rapporto è fatto di responsabilità reciproche, ma – fra esse – rientra anche quella di calcolare i giusti spazi. Condivisione non è confusione.
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