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La vergine di ferro I,7

Parte I: Labirinti

7.



La facciata d’arenaria di S. Michele Maggiore – un vanto della Pavia romanica – si levava di fronte al suo omonimo, Michele Ario. Entrò e la penombra lo avvolse, compiacente.
            I due uomini seduti al tavolino di fianco all’ingresso lo salutarono rispettosamente. «Salve, dottore!»
«Buongiorno» ricambiò lui. «Vi spiacerebbe aprirmi il cancelletto che chiude il Labirinto?»
«Nessun problema».
Uno dei due si alzò e guidò Ario lungo la navata. Superarono il punto che – come voleva un’iscrizione – era un tempo adibito alle incoronazioni degli aspiranti re d’Italia con la Corona Ferrea e salirono le scale del presbiterio. La guida trasse un paio di chiavi dalla tasca e aprì un basso cancelletto.
            Ai piedi di Ario, si stendeva il vasto frammento di mosaico conosciuto come “il Labirinto”. Esso era sormontato da una fascia, in cui l’Anno – in panni regali – sedeva sul trono, fra le personificazioni dei Mesi. Il Labirinto vero e proprio era circolare e sezionato in diversi meandri – malauguratamente spezzati dalla pavimentazione di epoca posteriore.
            «Il medaglione centrale rappresentava la lotta fra Teseo e il Minotauro» spiegò l’accompagnatore. «Un verso latino recitava: Teseus intravit monstrum(que) biforme necavit, cioè “Teseo entrò e uccise il mostro biforme”».
«Grazie, lo so» nicchiò Ario. Continuò a contemplare ciò che restava dei meandri, come a cercare un invisibile filo d’Arianna – quello che avrebbe segnalato l’unico percorso possibile.

[Continua]


Pubblicato su Uqbar Love, N. 146 (30 luglio 2015), pag. 25.

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