“Si
può dire che solo attraverso l’opera di Daisetz T. Suzuki (1870-1966)
l’Occidente ha avuto accesso allo Zen.” Così recita il primo risvolto di
copertina de Lo Zen e la cultura
giapponese, di Daisetz T. Suzuki per l’appunto (Milano 2014, Adelphi,
Collezione Il ramo d’oro, traduzione
di Gino Scatasta, 396 pp., € 45, 00). Il saggio apparve per la prima volta in
Giappone nel 1938. Negli Stati Uniti, fu pubblicato come Zen and Japanese Culture (1959, Bollingen Foundation Inc., New
York, N.Y.).
Il titolo è motivato dalle parole di
Suzuki stesso: “Per comprendere quanto il buddhismo sia entrato nella storia e
nella vita del popolo giapponese, proviamo a immaginare che tutti i templi del
paese, insieme ai tesori in essi racchiusi, vadano completamente distrutti. Il
Giappone ci sembrerebbe un luogo desolato, nonostante le sue bellezze naturali
e il carattere cordiale del suo popolo. L’intero paese assomiglierebbe a una
dimora abbandonata, senza mobilia, quadri, paraventi o sculture, senza drappi e
giardini, senza fiori ordinatamente disposti, senza drammi Nō né arte del tè e
senza molto altro.” (pp. 183-184).
Perciò, il saggio è scandito in
capitoli che ricollegano la spiritualità zen agli aspetti principali della
cultura giapponese: la vita dei samurai e l’arte della spada; la pittura; la
poesia; la suddetta arte del tè; l’amore per la natura.
Il primo capitolo è dedicato allo
Zen in quanto tale: una disciplina che mira all’illuminazione, ovvero a
liberare l’essere umano da avidità, ignoranza e ira attraverso lo spegnimento
di tutte le sofisticazioni intellettuali. Alle domande sul significato della
realtà, lo Zen risponde mostrando che “è la realtà così com’è a essere il significato”.
(p. 35).
Lo Zen nacque dall’incontro fra il
Buddhismo indiano e la tradizione filosofica cinese, nel I sec. d.C. Ciò
significò sposare lo spirito pratico della cultura cinese con la mentalità
filosofica indiana. Ne nacque un tipo di monachesimo “democratico”, in cui i
più anziani erano sì rispettati, ma tutti erano ugualmente impegnati nei lavori
manuali. Soprattutto, non proponendo teorie metafisiche, lo Zen non ebbe
problemi ad assorbire quelle taoiste, pur ignorandole nella vita pratica. Esso
fece anche da veicolo per lo studio del Confucianesimo in Giappone. Qui, lo Zen
divenne la filosofia della nobiltà, dei samurai in particolare. Non li
incoraggiò mai a intraprendere il proprio sanguinoso compito, ma diede loro una
via per affrontarlo e mantenere una forma d’innocenza. Da cui la decisione di
Suzuki di dedicare ben due capitoli all’arte della spada. In questo campo,
c’era un forte elemento shintoista, dato che l’arma era posta sotto una divinità
tutelare sempre invocata da colui che la forgiava (p. 87). Lo Zen fece della
spada un mezzo per eliminare la paura della morte e l’attaccamento a se stessi.
Il maestro di spada era colui che riusciva a essere un tutt’uno con la propria
arma, lasciando fluire le energie provenienti dall’inconscio. In questo modo,
poteva essere un guerriero senza lasciarsi prendere dalla ferocia e
dall’arroganza, o senza avere il terrore di morire.
Nell’arte del tè, invece, è
particolarmente evidente cosa s’intenda per sabi
e wabi nell’estetica giapponese. Il
primo può essere tradotto come “rusticità”, il secondo come “frugalità”. L’arte
del tè, pur essendo aristocratica, presenta entrambe queste caratteristiche
nelle dimensioni modeste della sala, nella sua voluta povertà d’arredamento,
nel modo “egualitario” di riunirsi per consumare la bevanda. In questa
privazione d’ogni sofisticheria, l’arte del tè raggiunge una raffinatezza
basata sull’armonia. Anche il fatto di impiegare un’attività concreta e
quotidiana per affinare la spiritualità è un tratto tipicamente zen.
Per parlare dell’estetica
giapponese, oltre alle due categorie succitate, è indispensabile menzionarne
una terza: il ma-xia, la “composizione
decentrata”. È una forma di pittura basata sull’uso del minore numero possibile
di tratti di pennello e sull’assenza di simmetria.
Il saggio plana su quell’amore per
la natura che Suzuki ritiene causato dalla presenza del monte Fuji e che ha
dato vita alla forma poetica dell’haiku. L’uomo
giapponese, nella natura, non cerca né la piacevole tranquillità, né una
traccia di “creatore trascendente”, né l’affermazione di se stesso in grandi
imprese. Egli è semplicemente parte viva di essa. Non concependo gerarchie fra
gli esseri viventi, può essere incantato e provare venerazione per qualunque
elemento naturale: un fiore rampicante, il chiaro di luna, il ticchettio della
pioggia. Da questo sentimento, nasce spesso lo haiku, un componimento poetico in diciassette sillabe.
L’interesse dell’Occidente per lo
Zen è così spiegato da Suzuki: “Se i
greci ci hanno insegnato a ragionare e i cristiani a credere, lo Zen ci insegna
ad andare oltre la logica e a non indugiare neppure quando ci troviamo di
fronte a «ciò che non si vede». La prospettiva dello Zen è infatti quella di un
punto di vista assoluto, nel quale non c’è spazio per il dualismo, qualunque
forma assuma. La logica nasce dalla separazione fra soggetto e oggetto, la fede
distingue ciò che viene visto da ciò che non viene visto. […] Nello Zen tutto
ciò viene cancellato perché confonde la nostra intuizione della natura, della
vita e della realtà.” (p. 290).
Uqbar
Love, N. 142 (3 luglio 2015), pp. 27-28.
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