Sanbo-ji - Eremo zen di montagna a Berceto (PR) |
La
parola “illuminazione” sa d’arcano, per il lettore occidentale medio. Essa
evoca un Estremo Oriente vagamente connotato da templi e campane tibetane, coi
suoi saggi decantati, ma “inattuali”.
Per questo, Philip Kapleau si
premura di esporre otto esperienze modernissime di cosa sia l’illuminazione nel
Buddhismo zen. Lo fa nel suo saggio The Three Pillars of Zen (Anchor Press,
New York, 1965). In
Italia, è stato tradotto da Nazareno Ilari: I
tre pilastri dello Zen. Insegnamento, pratica e illuminazione, (“Civiltà
dell’Oriente”), 1981, Ubaldini Editore.
Il cap. 5 riporta i resoconti
scritti degli interpellati: K. Y., funzionario giapponese; P. K., ex-uomo
d’affari americano; K. T., giardiniere giapponese; C. S., impiegato governativo
giapponese in pensione; A. M., insegnante americana; A. K., assicuratore
giapponese; L. T. S., artista americana; D. K., casalinga canadese.
Queste otto figure hanno in comune
un elemento fondamentale: all’interno della propria quotidianità, si sono
dovute confrontare col dolore, col vuoto di senso esistenziale o anche solo con
un desiderio di approfondimento filosofico. Da qui, la decisione di partire
alla ricerca di ciò che mancava a ciascuno di loro.
Lo sfondo ricorrente è quello dei
monasteri giapponesi. Per la precisione, si tratta di Hosshin-ji, Taihei-ji e
Ryutaku-ji. I rispettivi abati, all’epoca dei fatti, erano Harada-roshi,
Yasutani-roshi e Nakagawa-roshi. A loro, Kapleau ha dedicato il volume.
Roshi –come informa il glossario posto
in chiusura del libro – significa “venerabile maestro” ed è il titolo di colui
che guida e ispira i discepoli lungo il sentiero dell’autorealizzazione.
Quest’ultimo
termine, in ambito zen, è sinonimo di illuminazione, ovvero risveglio alla
propria natura e alla natura di tutta l’esistenza.
L’ambito in cui gli otto
summenzionati hanno vissuto questa esperienza è stato, perlopiù, quello del sesshin: pratica tipica dello Zen che
consiste in un periodo di intensa meditazione collettiva in isolamento (una
settimana o poco meno, precisa Kapleau in nota). Durante il sesshin, vengono impiegati e coordinati
fra loro gli accorgimenti didattici fondamentali, quali lo zazen (meditazione in posizione seduta), il teisho (commento formale) e il dokusan
(colloquio personale col maestro). Kapleau non tace neppure l’impiego del kyosaku, sorta di bastone dall’estremità
appiattita impiegato per percuotere il praticante al culmine dei propri sforzi
di concentrazione, affinché si provochi in lui “quella sovrumana esplosione di
energia che conduce alla dinamica presenza mentale” (p. 206) indispensabile per l’illuminazione. Si tratta
di una pratica introdotta in Giappone dalla Cina e non impiegata in Occidente,
se non su esplicita richiesta dei praticanti.
Le esperienze degli otto
summenzionati mostrano anche come sia assai proficuo l’impiego dei koan. Questi sono formule dal
significato oscuro, assegnate dal maestro ai discepoli, affinché essi ritrovino
il riferimento alla Verità ultima che essi contengono. Per pervenirvi, è
necessario rinunciare allo strumento della logica e ridestare un livello
mentale più profondo al di là dell’intelletto discorsivo.
L’esperienza del “risveglio” e dell’
“annullamento dell’ego” ha avuto diversi gradi di profondità, a seconda delle
persone coinvolte. K. Y. ricorda la propria “risata quasi inumana” (p. 214) e
il gioioso battito di piedi, la pazza gioia e le lacrime che egli non ha potuto
trattenere. P. K. si è sentito “libero come un pesce che nuota in un oceano di
acqua fresca e chiara dopo essere stato chiuso in una vasca piena di colla” (p.
236). La paura della morte ha portato K. T. a riscoprire la spiritualità di
famiglia; una notte d’estate, durante un intenso sesshin, si è trovato “in uno stato tale” che gli è sembrato di “guardare
il cielo immenso e trasparente” (p. 237) con consapevolezza chiara e acuta. C.
S. ha vissuto un’esperienza meno travolgente, ma ugualmente paradisiaca e fonte
d’un fiume di lacrime. A. M., dopo aver subito le persecuzioni naziste e aver
perduto tutte le proprie certezze, ha ricercato una nuova via spirituale
assieme al marito; entrambi, a breve distanza l’uno dall’altra, hanno raggiunto
l’illuminazione durante un duro sesshin.
A. K. ha iniziato il proprio cammino a
partire dalla perdita di due fratelli: “Perché la vita è così malsicura e
miserabile? Siamo nati solo per morire?”(p. 252). L. T. S., scultrice uscita
dall’alcolismo, ha ricercato il perduto entusiasmo verso la vita
nell’identificazione “con qualcosa di infinitamente più potente della nostra
mente ristretta” (p. 257): “Il mondo non mi domina più dall’alto. È sotto di
me. Ho fatto una capriola e l’ho inghiottito” (p. 260). D. K. è entrata in un
periodo nero a causa del suicidio del marito; ha cercato appoggio spirituale
prima in India, poi in Birmania e in Giappone. Ha imparato dapprima a muoversi
“come l’aria” e a vedere le altre persone “alla luce di una perfetta
comprensione” (p. 272). Poi, ha conosciuto la “deliziosa vertigine” (p. 273) di
chi si è liberato di quell’ “ego” così pesante.
Comune a queste otto figure è la
loro assoluta ordinarietà, a livello di capacità intellettive e stile di vita.
Comune a tutte loro è anche la gratitudine per aver potuto vivere la più
preziosa esperienza possibile. “Ciò che in tali individui è eccezionale è
semplicemente il loro coraggio di dirigersi verso un luogo sconosciuto
percorrendo una strada che non conoscevano nemmeno, sorretti dalla fede nel
loro Vero Sé” (p. 201).
Nel corso dei decenni, il Buddhismo
è andato diffondendosi in Occidente, sicché quel “viaggio” può essere meno
lungo e gravoso sul piano strettamente geografico. Ciò che rimane è il balzo
oltre la paura e i dubbi, “nel Vuoto vitale, nell’abisso della Natura
Primordiale” (p. 201).
Pubblicato su Uqbar Love, N. 120, 24 gennaio 2015, pp. 7-8.
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