“Sindrome di Stoccolma”. Un concetto affascinante e
complesso che si è librato fuori dal cielo delle neuroscienze, per correre nei
pascoli del linguaggio comune. Purtroppo. Non appena si vede qualcuno andar d’accordo
con persone che non hanno immediatamente soddisfatto il suo ego, ecco che
arriva: “Ah! Sindrome di Stoccolma…”
No, miei cari.
La sindrome di Stoccolma
è quel legame di complicità che si crea in un sequestro di persona fra il
rapito (che si affida al sequestratore) e il rapitore (che è gratificato dall’abbandono
“infantile” del sequestrato). Niente di scandaloso. Normale debolezza umana.
Comunque, come è spiegato bene nel Dizionario Della Salute di Corriere.it, la sindrome riguarda espressamente i sequestri di persona a mano armata, con
costante pericolo di vita per gli ostaggi.
Non c’entra niente con l’affetto verso un genitore/docente
severo.
Non c’entra niente con la disponibilità a riconoscere un
errore (secondo un codice comportamentale condiviso) e accettare la correzione
conseguente.
Non c’entra niente con l’accettazione di rivedere i dogmi
della propria “forte personalità” e le proprie “radicate convinzioni morali”,
perché non esistono convincimenti e filosofie tali da non poter/dover essere
messi in discussione dall’imprevedibilità della vita. Fino alla bara sempre s’impara. Chi si vanta d’essere “tutto d’un pezzo”, di “non
cambiare mai idea” e di “essere sempre
se stesso” non è che un vanitoso. L’unico valore (se mi si concede
questo azzardo) a essere davvero incrollabile è l’importanza d’imparare la lezione, anzi, le lezioni, sempre nuove e incessanti. Ed
è solo da ciò che ci contraria o che ci fa paura che s’apprende davvero
qualcosa d’inedito: perché ci spinge oltre i limiti confortanti che ci siamo
disegnati, per farci avventurare in lande inesplorate dell’esistenza. Fino a
farci scoprire che non siamo fatti di
vetro. Che abbiamo dentro di noi risorse di forza e d’intelletto insospettabili.
Che possiamo anche parlare, atteggiarci, ideare e affrontare come mai prima,
senza per questo rinnegare ciò che siamo stati fino a quel momento. Tutte
queste possibilità vengono evocate non da chi ci rimpinza di carezze, ma da chi
intuisce l’oro che c’è in noi e ci spinge a purgarlo dalle scorie. Un essere
umano non è una camicia: non viene al mondo per essere sempre inamidato. Ben
venga ciò che produce pieghe in noi. Sono altrettanti solchi in cui seminare.
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