Comincia come una leggenda metropolitana. C’è un uomo, semplicemente. Non ha un nome, né l’hanno la sua famiglia e il suo podere. Tutto è vago, come in una fiaba acida. Eppure, i corpi, i colori, il calore stesso del sole hanno una concretezza inquietante. La telecamera insegue i volti e le carni, li accerchia e li stringe in una morsa. Assedia i personaggi dentro il camper guasto ove cercano rifugio.
Gianclaudio Cappai prende nette distanze dal cinema borghese, ritraendo una campagna che nulla ha di bucolico. Cugini, genitori, fratelli vivono in una promiscuità screziata di polvere e sudore. I conflitti mormorano, sibilano ed esplodono; le passioni dei personaggi si dilaniano fra loro, come i galli da combattimento che la famiglia alleva. Compagni ideali per il figlio del suddetto uomo. Il giovane sembra aver assorbito, più d’ogni altro, quel sole che brucia le stoppie. Non tenta neppure più di combattere contro la propria violenza, che gli è costata un internamento in una clinica psichiatrica. Naufraga in se stesso, annega, trascinando con sé la propria famiglia.
Essa va sgretolandosi, facendo presagire –a chi lo vuol riconoscere- che ognuno è come una tartaruga dal guscio spezzato. Il ronzio delle mosche suggerisce fetori crudeli, mortiferi. In mezzo a tutto questo, l’uomo tace. È il silenzio di patriarchi e profeti messi alla prova dal cielo –o dall’inferno. E l’uomo reagisce come Abramo, salendo sul suo monte di Moria.
Questo, forse, voleva dire Cappai: so che c’è un uomo. So cosa un uomo possa fare, per paradossale amore. Balena l’incubo ancestrale del sacrificio, non debellato da alcuna civiltà. Il sacrificio non purifica, conserva intatto l’odore del sangue. Ma è proprio questo odore, vulnerabile e feroce, a dire che c’è un uomo.
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