"Erica Gazzoldi è nata a Manerbio (Brescia) l’8 settembre 1989; ha conseguito la maturità scientifica all'istituto Blaise Pascal del suddetto paese. È stata allieva dell’Università degli studi di Pavia, del collegio S. Caterina da Siena e della Scuola Superiore IUSS. Il 7 dicembre 2011 ha conseguito la laurea triennale in Antichità classiche e orientali, con una tesi dal titolo Hellenism and the Seleucids in the Book of Daniel. Il 18 febbraio 2014 ha conseguito la laurea magistrale in Filologia, letterature e storia dell’antichità, con una tesi dal titolo The Additions to the Book of Esther: Historical Background. Si è diplomata in Scienze Umane presso la Scuola Superiore IUSS (Pavia) il 6 maggio 2014, con una tesi dal titolo Gorgia da Leontini e l’Encomio di Elena: la questione della responsabilità morale. Ha collaborato per anni col mensile studentesco Inchiostro e ha curato la rubrica “LeggiLOL” sul sito di Universigay. Attualmente, gestisce il sito del Circolo TBGL "Harvey Milk" di Milano. Coltiva la passione della scrittura fin dalla prima adolescenza; si è cimentata con diversi generi: il romanzo, il racconto breve, la lirica, il libretto d’opera. Talvolta, ama creare personalmente le illustrazioni. Gestisce un blog miscellaneo: Il filo di Erica. Ha al proprio attivo due raccolte poetiche: La tessitrice di parole (Brescia, 2011, Marco Serra Tarantola Editore) e La biblioteca di Belisa (Villasanta 2015, Limina Mentis). Collabora con il mensile Paese Mio Manerbio, con il quotidiano on line Uqbar Love e con il sito di cultura Caffebook. Ha un profilo su BlastingNews, sito di giornalismo partecipativo.
Benvenuta Erica. Dì un po’, per te quando diventa seria “la cosa”, una volta arrivati al culmine di un disastro?
La “cosa” diventa seria quando ci si rende conto di non essere in grado di evitare dolore agli altri come si vorrebbe.
I messaggi s’inviano per ricevere per forza una risposta?
Non sempre. A volte c’è solo il bisogno di scaricare il petto da un peso, o di far sapere a un’altra persona che non ci siamo scordati di lei.
Fare del male agli altri consiste nel dare tutto tranne che se stessi?
Bella domanda. Credo che la risposta sia “Sì”. Perlomeno quando i destinatari di ciò che diamo desidererebbero - appunto - nient’altro che noi stessi.
Al momento di un contatto a pelle, riesci ancora a immaginare ben altro a cui pensare?
No, non riesco a trovare altro a cui pensare. È (modestamente) il mio carisma. E anche la mia più grande debolezza.
L’ultima volta che sei tornata indietro, ce la racconti? Sei un’autrice dall’assidua ispirazione?
L’ultima volta che sono tornata indietro? Credo sia stato all’inizio del 2015, quando credevo di essere pronta per andarmene dal mondo e - piuttosto - sono rimasta. La mia ispirazione è assidua, sì. Non riesco a soffrire la noia o a perdere la voglia di creare. Non necessariamente di creare poesia.
Hai mai avuto modo di comporre a quattro o più mani?
No, né lo cerco. Ammetto di vivere la scrittura in modo profondamente individualistico.
Si può imparare a essere famosi?
Io ci sto provando.
Quale scena si ripete quando ti relazioni socialmente?
Io che mi accosto a una persona, saluto e inizio una conversazione su un argomento a caso. Di solito, la conversazione prosegue e diventa amicizia… ma può avvenire anche il viceversa.
Concludi quest’affermazione: mi rifiuto categoricamente di scrivere su…
… Grandi concetti astratti che non significano nulla per me e che rovinano l’umanità più di quanto la aiutino.
… La biblioteca di Belisa (Limina Mentis ed.)
La Gazzoldi scrolla il desiderio dei veri lettori, di avere tra le mani un’opera letteraria a patto che non sia mai stata consultata; e con l’atmosfera rasserenante, che solo una struttura accogliente, che sappia di un’essenza naturale, può ricostituire… riscaldata da raggi solari che s’infiltrano senz’accecare minimamente, come ad addensare il presupposto per le più intime confidenze.
Ben lungi insomma dall’abbandono, da uno stato d’animo decadente, quello tipico dei posti sovraccarichi di culturale sentore.
In effetti il luogo in dotazione rievoca della germogliante, fitta vegetazione, da inspirare a pieni polmoni, per emozionarsi nelle tenebre identificabili in una persona, dacché capace di ospitare qualsiasi tipo di luce; ignara semmai del proprio destino, di volgere alla fine in balia di una ragione sferzante.
La protagonista si chiama Belisa, è una giovane donna che crede bene di mettere le sue radici in un contesto strutturale che rigenera nient’altro che il Pensiero, e difatti i libri che si rendono preda della sua curiosità danno il là ai vari capitoli di questa raccolta di versi.
Quindi ci possiamo trovare dinanzi a una dedica nei riguardi di un sentimento positivo ma pur sempre immaturo, che non tornerà più in sesto, come anche a dover riflettere sulla bellezza di un’intesa tra donne, che hanno magari modo di comunicare in cuor proprio.
L’autrice si anima con una svolta paradisiaca ma non invasiva, e, carente di un rispettoso altrove come tutti del resto, classicheggia coi messaggi che manda, o drammatizza l’umanità argomentando sul malessere e sull’inesistenza; ma con la vivacità leggendaria di quel fantasmino, Titivillus, che ai tempi del medioevo sgraffignava gli epistolari tralasciati dagli addetti alle pubblicazioni.
La poesia poi si espande, la parola si fa apparentemente straniera, essendo ispirata persino dai meandri di una musica aggressiva, di un entusiasmo che la Gazzoldi ha scoperto da poco, suscitante anch’esso delle impressioni a pelle, che vibrano, che si allargano di-versificando alla fine della silloge; di questa specie di excursus per consacrare nuovamente un intelletto elevato, ma alla portata di chiunque.
“La biblioteca di Belisa” contiene anche certe poesie scritte intingendo le emozioni nella lingua cara per la Gazzoldi, ridestante le sue origini manerbiesi, e cioè bresciane… accompagnate addirittura da disegni notevoli, eh già… in effetti ciascun capitolo si apre con svariate immagini che sembrano riprodursi da sé, opera sempre di Erica.
Particolare la riproposizione, illustrata e a parole, della lirica “La risata”, che brilla di contemporaneità, alla fine di “Titivillus”, e ad appannaggio di una forma sia stilistica che concettuale, alternante l’oscurantismo col sogno, a seguito di un’elaborazione che s’è protratta con passione; come a dover percorrere uno e più sentimenti di conseguenza."
Vincenzo Calò
Dal sito di Roma Capitale Magazine.
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