“Spesso
sento delle voci. Mi rendo conto che, ammettendolo, finisco nel novero dei
pazzi, ma non me ne importa più di tanto. Se si crede, come ci credo io, che la
mente voglia guarire se stessa, e che la psiche cerchi la coerenza e non la
disintegrazione, non è difficile concludere che la mente produrrà quello che
serve per raggiungere il suo scopo.
Si presume che chi sente le voci
compia azioni efferate; le sentono gli assassini e gli psicopatici, e anche i
fanatici religiosi e i kamikaze. Ma in passato le voci erano un dono e un
privilegio. I visionari e i profeti, lo sciamano e la guaritrice. E,
naturalmente, i poeti. Sentire le voci può essere una cosa buona.
Impazzire
è l’inizio di un processo. Non dovrebbe esserne il risultato finale.
Lo psichiatra Ronnie Laing, il guru
che negli anni Sessanta e Settanta fece diventare di moda la follia, la
considerava un processo che può portare da qualche parte. Quasi sempre, però,
la follia è talmente terribile per chi la sperimenta, o per chi ne è
spettatore, che l’unica soluzione sono i farmaci o una clinica.
E il nostro parametro per la follia
è in continuo mutamento. Con ogni probabilità, la tolleriamo meno ora di quanto
l’abbiamo tollerata in qualsiasi altro periodo storico. Non le diamo spazio. E,
fondamentalmente, non le diamo tempo.
Impazzire richiede tempo. Rinsavire
richiede tempo.”
JEANETTE WINTERSON
Da:
Perché essere felice quando puoi essere
normale?, Milano 2012, Mondadori, pp. 155-156. [Traduzione di Chiara
Spallino Rocca].
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