Perché usare sigle come LGBT Perché mettersi etichette? Noi siamo persone!
Il Dizionario dei Luoghi Comuni LGBT continua proprio con la...
P - PERSONE
Chissà quante volte avrete sentito frasi del genere... Questa storia dei "codici" che ci spersonalizzerebbero rientra anche nella retorica tipica di una certa politica (non sto a ricordare un comizio famosissimo di una donna/madre/cristiana altrettanto famosa). Ogni tanto, saltano fuori "filosofə" (e usiamo 'sto benedetto schwa, tanto per non far sopire le polemiche!) che si scoprono "contrariə alle etichette", credendo di aver sparato chissà quale originalità ispirata da Apollo. Quasi quasi, farò togliere il mio nome dai documenti, visto che non mi va di farmi etichettare come "Erica Gazzoldi" o "Gelsomina Vattelapesca". Scherzi a parte... esattamente, come va designata una situazione o una caratteristica, se non si accetta un'etichetta di qualche tipo? "Siamo quelli là, a cui piacciono quelle cose là..." Molto chiaro, nevvero?
Le "etichette" servono come codici di riconoscimento fra potenziali partner e per l'impostazione di obiettivi comuni (approvazione di una legge anziché di un'altra, ecc.). Servono a capire cosa vogliamo e cosa non vogliamo dalla nostra vita sentimentale e ci collegano con altre persone intenzionate a produrre cultura e a creare associazioni.
Prima delle "etichette" come "gay", "lesbica" "transgender" o "LGBT", c'erano solo gli "strani", i "diversi", i "pervertiti", i "malati", le "zitellone isteriche"... Prima delle "etichette", non era possibile capire che non eravamo lə unichə a essere in una determinata situazione e che non eravamo "i mostri del villaggio". Non c'erano indagini storiche sull'esistenza di diversi orientamenti sessuali e identità di genere e sul modo in cui le varie epoche e culture li avessero affrontati.
Peraltro, in questo caso, il termine "etichetta" è improprio come "ghettizzazione". Le etichette, così come i ghetti, sono qualcosa d'imposto dall'alto, tendenzialmente in senso ostile. "Lesbica" non è un'etichetta: "sf*gata che non trova un uomo" sì. "Transgender" non è un'etichetta: "travestito" o "traviato" sì. E tutti questi simpatici appellativi sono nati fuori da quell'associazionismo LGBT che ha creato "il lessico specifico" del campo.
La stessa sigla "LGBT" sarà pure asciutta e incompleta, un filino asettica... ma serve a capirsi in due minuti. Immaginate di dover ripetere una filastrocca infinita ogni volta, per indicare la solidarietà fra tutte le persone non strettamente cis-etero. Casomai qualcuno fosse appena cascato dalla Luna e non comprendesse una sigla tanto misteriosa, una semplice ricerca sullo smartphone risolverebbe tutto.
In altre parole, in che modo dare un nome al proprio orientamento o al proprio genere ci renderebbe "meno persone"? Una remora del genere si spiega soltanto se ci si rifiuta di guardare in faccia una parte di sé, se si teme il confronto con chi ha le idee più chiare delle nostre o se si teme un giudizio sociale. Così, torniamo alla solita storia di sempre: la paura della condanna, magari di quella interiorizzata.
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